Il Museo Nacional Thyssen-Bornemisza di Madrid, unico museo spagnolo a possedere opere di Max Beckmann, ospita la prima retrospettiva in terra iberica. Una cinquantina di pitture, due sculture e una cartella di litografie, con importanti prestiti dall’Europa e dagli Stati Uniti. Max Beckmann. Figure in esilio sarà aperta al pubblico fino al 27 gennaio 2019.
Madrid. Poco noto nell’Europa meridionale, Max Beckmann (1884-1950) è stato invece uno dei maestri dell’Espressionismo del Novecento, con una personalità artistica che si impone sia a livello visivo sia a livello concettuale, come ben spiega la mostra curata da Tomàs Llorens. Emotivamente intensa pur non essendo una retrospettiva completa (mancano, ad esempio, approfondimenti sulla formazione dell’artista), ma capace di penetrare nell’essenza e nel significato dell’opera di Beckmann. La scelta delle opere, e l’attenzione dei visitatori, è indirizzata su un tema in particolare: l’esilio, materiale o psicologico che fosse, e che l’artista visse in prima persona quando lasciò la Germania sul finire degli anni Trenta.
L’esilio come metafora di una condizione esistenziale in quel burrascoso Novecento (ma non solo), dilaniato da decine e decine di violenti conflitti di cui il mondo non aveva mai conosciuto l’eguale, e che costrinsero milioni di persone a lasciare la loro terra e a rifarsi altrove una vita. Una riflessione che prende le mosse dall’esperienza personale, perché quella di Beckmann fu la generazione tedesca che, per ben due volte, provò sulla propria pelle il dramma della perdita d’identità, prima nel 1918, e ancora nel 1945, quando la Germania si ritrovò in macerie e fu necessario ricominciare dall’inizio, ripensare a una nuova struttura politica e sociale.
La mostra si apre con le opere realizzate in Germania fra il 1914 e gli anni Trenta, quando, da docente della Scuola di Belle Arti di Francoforte, Beckmann inizia a farsi conoscere come artista a livello nazionale. Sulla base di quanto accennato sopra, le sue pitture raccontano una società ferita nell’orgoglio e nell’anima, alla ricerca di valori in cui credere. Beckmann fu un pittore tragico perché, con amaro realismo, vide e decise di raccontare i drammi della sua epoca, ma non per questo fu un pessimista. L’artista fu sempre, infatti, costantemente innamorato dell’esistenza, e anche i suoi quadri più oscuri possiedono un fondo di sensuale erotismo, come a voler significare che la vita può riservare piacevoli sorprese, nel suo enigmatico evolversi, nel creare situazioni interessanti e coinvolgenti.
L’istinto e l’eros prevalgono quindi sulla cerebralità. Lo si comprende efficacemente da quelle figure femminili zingaresche, equivoche, disponibili all’avventura, che non si pongono troppe domande, che ricorrono nelle sue pitture, e osservandole sembra di trovarsi davanti certe eroine descritte da Henry Miller nelle sue pagine parigine. Una mostra suggestiva, con opere per la maggior parte di grande formato, simili a murales, alcune delle quali, dense di figure, ricordano il muralismo messicano di Diego Rivera, a dimostrazione di come l’Espressionismo di Beckmann sia assai poliedrico.
Pur molto partecipe della cultura tedesca – apprezzava il romanticismo, e filosofi quali Schopenhauer e Nietzsche -, Beckmann fu un pittore del suo tempo, interpretando in chiave storica il sentire dell’epoca, segnata da tragici eventi e profondi cambiamenti sociali, e riuscendo a esprimere il clima di tensione, con una caratura non dissimile da quella di Pablo Picasso. Le prime opere del periodo bellico risentono in parte della lezione di contemporanei quali Otto Dix e Georg Grosz, dei quali Beckmann riprende il feroce sarcasmo. Non casualmente, in quei primi anni Venti l’ambiente del circo è una costante dei suoi quadri, pungente metafora del caos morale in cui versava la Repubblica di Weimar. E il dinamismo che possiedono i quadri, conferisce loro un potente respiro teatrale, a metà fra magia e realtà.
Allontanandosi dal clima estetico della Neue Sachlichkeit, Beckmann descrive in chiave allegorica lo sfacelo di una società corrotta, segnata dalle disuguaglianze, eppure ubriacata dall’edonismo, che trovava sfogo nei numerosi e trasgressivi locali notturni sorti un po’ in tutta la Germania. Quella di Beckmann non è una critica perbenista, più semplicemente esprime il disgusto per una società ipocrita e materialista, ma un simile atteggiamento non poteva piacere al nascente regime nazista: nel 1933 fu costretto a lasciare l’incarico di Professore presso la Scuola di Belle Arti di Francoforte, e quattro anni più tardi le sue opere furono incluse nella lista nera della cosiddetta “arte degenerata”. A seguito di questa etichetta, decise di lasciare la Germania e trasferirsi ad Amsterdam, dove rimase fino al 1947 quando si spostò a New York, per lasciarsi alle spalle le macerie dell’Europa del secondo dopoguerra.
Con quell’esilio volontario iniziò la sua seconda carriera pittorica, sulla quale la mostra madrilena si concentra con particolare attenzione. Nel secolo dei conflitti, l’esilio sembra essere una condizione permanente dell’essere umano, e le opere di Beckmann sempre più divengono allegorie di una condizione esistenziale segnata dalla perdita d’identità dell’individuo, animato però dal desiderio di ricercarla, alla stregua di un novello Ulisse. Quattro sono le dimensioni dell’indagine pittorico-sociale di Beckmann, che potremmo paragonare ai quattro elementi di Anassimene ed Empedocle. La maschera, la città, la morte, il mare: ognuno di essi rimanda all’idea di partenza, di perdita, di assenza, di viaggio.
La maschera, millenario simbolo di mistero sin dall’epoca del teatro greco antico, simboleggia la perdita dell’identità, del bagaglio spirituale di un individuo e di un popolo; chiunque è costretto a lasciare la propria terra lascia indietro anche il proprio volto. Protagonisti di queste pitture, artisti di strada, cartomanti, ballerine di cabaret, persone dalla vita precaria, recitata a beneficio di qualcuno più fortunato di loro, per regalargli piacere o incuriosire con il mistero dell’esotismo. Pitture certamente sensuali, anche se in maniera dolorosa, eppure rese affascinanti dal tratto stilistico che richiama l’arte antica: volti spigolosi di statue egizie e romane con acconciature coeve, colori accesi e pose ammiccanti. E proprio quei colori accesi e gli stridenti contrasti cromatici ricordano lo stile di Toulouse Lautrec, colui che aprì la strada al secondo Espressionismo, di cui Beckmann fu indiscusso maestro.
Altro elemento fondante, la città: questa costituì il nuovo spazio vitale del Novecento, dove confluirono consistenti masse di ex contadini attirati dalla prospettiva, o dal miraggio, di una vita migliore. Un esilio dalla campagna natia, verso la prigione di asfalto e cemento sfavillante di luci menzognere, dove il ritmo vorticoso fa smarrire l’individuo, lo ingloba in una massa senza volto, lo illude di possedere qualcosa, e lo getta in un angolo più misero di prima. I locali notturni, i ristoranti gli alberghi, le ballerine, ancora il circo, costituiscono la quinta di un universo dove si affoga nella solitudine.
Dove la pittura di Beckmann acquista una stupenda profondità poetica, è nelle pitture dedicate alla morte e al mare; se l’esilio può essere una sorta di “morte in vita”, a quest’idea il pittore associa immagini funebri che ricordano in parte, in alcune composizioni, i Trionfi della Morte di medievale memoria, mentre dal punto di vista dello stile, esprimono quell’ineffabile pittura che anche Picasso espresse negli anni di Mougins. Figure al limite dell’astratto, dalle dimensioni ipertrofiche, angeliche o sataniche a seconda dei casi: un gran teatro dell’aldilà, dove però la vita pulsa come nell’aldiquà, con il suo carico di menzogna e seduzione.
Il mare è invece l’elemento che più richiama l’idea dell’esilio e del viaggio, una tempestosa barriera d’incognite da attraversare con tenacia, per evitare che quello stesso mare sia, dantescamente, “sopra noi richiuso”.
La mostra si chiude con l’ultima opera di Beckmann, compiuta poche ore prima di morire per infarto nel 1950: quegli Argonauti, che riassumono il suo percorso pittorico e concettuale, un trittico che trasporta nell’atmosfera dell’epica classica il suo suggestivo tratto espressionista, non privo di una certa ironia che stempera la tensione drammatica, assieme ai riferimenti alle arti, come la musica, la poesia e la pittura, elementi di un patrimonio immateriale che ovunque vada, ogni individuo dovrebbe portare con sé. Per questa ragione la pittura di Beckmann è ancora profondamente attuale; perché riesce a interpretare le aspirazioni dell’umanità verso l’altrove, e lo spirito di resistenza alle difficoltà del cammino.
Informazioni utili
Beckmann. Figuras del exilio
Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Paseo del Prado, 8, 28014 Madrid
Fino al 27 gennaio 2019
In collaborazione con la Comunidad de Madrid
*Max Beckmann – Paris Society, 1931 New York, Solomon R. Guggenheim Museum