Presentato a Venezia e ora disponibile direttamente su Netflix, senza passare in sala: The Other Side of the Wind, l’ultimo film di Orson Welles
The Other Side of the Wind è uno di quei film di cui i critici e storici del cinema hanno parlato a lungo, una di quelle opere con attorno a sé l’aura misterica di una chimera: l’ultimo film di uno dei più grandi registi di tutti i tempi, Orson Welles. L’ultimo, quindi il suo testamento. E quando il vecchio muore si sa, dopo qualche lacrima di commiato, quello a cui tutti ambiscono di più è riuscire mettere le zampe sulla sua eredità.
La carriera di Orson Welles è piena di drammi legati alla produzione delle sue opere, dopo il folgorante Quarto Potere (consacrazione e condanna al tempo stesso) è stata una lotta continua con produttori e distributori. Già il successivo L’orgoglio degli Amberson era stato ri-montato a tradimento in sua assenza (era considerato troppo deprimente). E da quell’episodio in poi… una sequela di traversie senza fine, l’inizio del “tradimento” (tema che rimane centrale in tutta la sua opera).
La storia della genesi di The Other Side of the Wind però batte tutte le altre: girato tra il 1970 e il 1976, con una sceneggiatura misteriosa che Welles costruiva giorno per giorno. Sul film hanno influito le vicende dell’ultimo Scià di Persia e della rivoluzione iraniana, un processo in Francia per il possesso della pellicola, un Oscar onorario, la nascita e la fine di un’amicizia con Peter Bogdanovich. Sarà proprio quest’ultimo, una volta trapassato Orson Welles, a prendersi in carico l’arduo compito di portare a termine il film (con tutto il supporto di un’infinità di materiale d’archivio, appunti, testimonianze etc).
A dirimere le sorti della pellicola ci hanno pensato quei prezzemolini di Netflix che hanno portato The Other Side of the Wind alla Mostra del Cinema di Venezia (fuori concorso) assieme a un documentario, diretto da Morgan Neville, che racconta per filo e per segno le intricate vicende produttive del film: They’ll Love Me When I’m Dead (frase detta dallo stesso Orson Welles. No, non è vero, l’ha mai detta – ma potrebbe, o comunque si dice che l’abbia detta. Sorrentino con il “Tutto vero, tutto falso” di Loro è davvero l’ultimo arrivato alla festa).The Other Side of the Wind è metacinema all’ennesima potenza, racconta la storia di un regista, Jake Hannaford, interpretato da un titanico John Huston, che non riesce a finire il suo ultimo film. Per il suo 70esimo compleanno viene organizzata una grande festa con il gotha dell’industria cinematografica; tra gli invitati di questo mega party in una villa vicina a quella fatta esplodere da Antonioni in Zabriskie Point anche Claude Chabrol e Dennis Hopper nel ruolo di sé stessi. L’occasione è propizia per la proiezione del suo ultimo film, ancora in lavorazione, con scene mancanti, l’attore protagonista fuggito per l’esasperazione, senza un finale – un’autopsia su un cadavere ancora vivissimo.
The Other Side of the Wind, per come lo possiamo vedere oggi, nella sua presunta forma finale, è un film magnifico. Ha in sé tutto lo splendore dell’eredità di un genio del cinema. È come se l’ultimo Fellini e il primo Godard si fossero dati la mano in una corsa sfrenata, rastrellando lungo il tragitto tutto il meglio di Antonioni, Preminger, Clouzot e compagnia bella.
Un film che per frammenti ricostruisce l’ossessione del vivere una vita per il cinema e attraverso il cinema. È una critica di Orson Welles a Hollywood e al potere, nonché a sé stesso. Come in molti hanno detto è il suo 8 1/2, ma più spietato. Il regista dei registi fa la parodia di sé stesso e dell’industria cinematografica restando sempre in bilico, fino all’ultimo frame, tra la condanna e l’assoluzione.
Fotogramma dopo fotogramma mette in scena la (propria) versione del Saul. Il regista re di Hollywood allontanato dal suo regno vede emergere la stella del proprio “apostolo” (nella realtà Bogdanovich -accolto dalla nuova Hollywood come miglior regista della propria generazione- nel film il personaggio di Brooks Otterlake, interpretato da… Bogdanovich). Invidia e tradimento, passioni sopite e ossessioni (carnali e cinematografiche, per la propria musa, Oja Kodar) si inseguono nelle ultime ore di una vita che si sta spegnendo rimpiangendo e/o maledicendo i fasti di una gloria passata. La scena del ragazzo e della ragazza (Bob Random e Oja Kodar) che si inseguono nudi tra le ombre geometriche ricorda quella (ancora oggi sensazionale) con lo stesso Welles e Rita Hayworth in La signora di Shanghai.
L’ossessione di Hannaford per il protagonista del proprio film (Random) è stata letta da alcuni come forma di omosessualità latente di Orson Welles, ma in questa rincorsa (letterale e metaforica) la preda sembra essere non tanto un altro uomo, ma l’uomo che è stato: la gioventù lontana, la virilità perduta. Nel finale del film nel film, sullo sfondo di un deserto abbacinante che ricorda (non a caso?) quello di Teorema di Pasolini e quello della Salomè di Carmelo Bene, assistiamo anche all’abbattimento di un enorme totem fallico (un cazzo). Più chiaro di così…
La sequenza dell’orgia nel bagno di un locale è stata montata in sei mesi, quella di sesso in macchina sotto la pioggia battente con Bob Random e Oja invece è stata filmata nell’arco di tre anni. Welles ha girato, montato e rimontato all’infinito una pellicola che restituisce una passione e una vitalità inedita alla maggior parte dei nuovi registi delle ultime generazioni. Uno dei film più sensazionali del 2018 è quello di un regista morto 33 anni fa.