Art Miami, giunta alla sua ventinovesima edizione, vanta una posizione preminente nel panorama delle fiere d’arte moderna e contemporanea. Molti sono gli eventi che si affiancano, nel corso della settimana tra il 4 e il 9 dicembre 2018 – la più importante negli Stati Uniti – alle ben note Art Basel Miami o Design Miami, e Context Art Miami è senza dubbio una delle più prestigiose.
Ancora una volta è nutrita la pattuglia degli italiani presenti nella città principale della Florida in occasione della settimana dell’arte. Tra gli espositori nostrani sarà presente per il secondo anno consecutivo, ospitata proprio da Context Art Miami, Liquid Art System, i cui artisti esibiranno la loro produzione più significativa, offrendo una prospettiva del loro stile e della loro ricerca, sempre accomunata da una decisa fedeltà a una specifica tecnica che rimanda a una particolare abilità manuale o a un territorio. Un’arte “glocal”, a metà strada tra il locale ed il globale, come recita il motto della Liquid Art System.
Abbiamo incontrato uno di questi artisti, il marchigiano Matteo Procaccioli, e gli abbiamo rivolto alcune domande.
È la tua prima volta in occasione della settimana dell’arte di Miami. Oltre all’aspetto strettamente fieristico – ovvero commerciale – quali sono gli aspetti salienti del partecipare a una sorta di festival dell’arte, di enorme collettiva?
Ritrovarmi a esporre insieme a grandi nomi del panorama artistico internazionale e avere l’opportunità di mostrare ad un pubblico sempre più ampio il mio lavoro è certamente una vetrina importante a livello promozionale ma, per quanto mi riguarda, l’aspetto più affascinante del fare parte di questa manifestazione è lo stimolo che mi rende in chiave futura, per le mie prossime tappe artistiche. Consapevoli della dimensione dell’evento si può essere tentati dal sentirsi solo “uno tra i tanti”, ma non c’è dubbio che qualora si guardi la cosa tenendo conto dei numeri, della totalità degli artisti al mondo, si tratta di un traguardo – e soprattutto di nuova partenza – che mi lascia alquanto soddisfatto.
Le opere che porti a Miami costituiscono un’anteprima del tuo nuovo progetto, Urban Hives. Vuoi parlarcene?
Mi piaceva l’idea di portare qui una sorta di “anteprima” della mia nuova serie di lavori, prima di esporla integralmente. La rappresentazione delle metamorfosi urbane è il tema portante del mio lavoro artistico e con questo progetto ho voluto porre l’attenzione, oltre che sul cambiamento, su un aspetto della realtà sociale che nel mondo d’oggi è più che mai attuale e di cui sarebbe urgente una profonda analisi, per trovare delle risposte risolutive. Ovvero la densità urbana abitativa, di cui questi Urban Hives – ovvero “alveari urbani”, agglomerati deumanizzati e deumanizzanti, sono la triste soluzione oltre che l’emblema, il malinconico monumento.
Raccontare questo aspetto rappresenta un po’ il culmine del mio percorso artistico sull’architettura urbana: ho trovato veramente intenso e più che mai assordante raccontare queste realtà. In chiave futura mi vedo concentrato, molto probabilmente, su aspetti totalmente diversi del paesaggio urbano, forse anche perché sospinto proprio dal bisogno di silenzio, dopo tutto questo caos metropolitano. Inizierò a raccontare i silenzi delle città.
Rispetto al tuo lavoro precedente, dedicato a un centro urbano archetipico come fu Pompei, torni a raccontare l’attualità e forse più che mai, trattandosi non già di vestigia dell’epoca industriale ma di realtà contemporanee e perfino future come il tema dell’alta densità di popolazione. Visti con l’occhio dell’artista e dell’analista, quali pensi possano essere le ipotetiche soluzioni a queste problematiche?
Ci tengo a premettere che in realtà con Urban Hives non perseguo l’intento di lanciare un messaggio sociale: mi limito a osservare e documentare, per poi esprimere il mio punto di vista. Che è un punto di vista certamente più concettuale che estetico – l’abituale assenza di esseri umani nei miei scatti diventa in questa serie più che mai stridente, testimoniando con forza la disumanità insita nella situazione – ma pur sempre un semplice ritratto della realtà attraverso i miei occhi.
È una questione particolarmente complessa, comunque, e se la soluzione non appare alla portata di urbanisti, architetti, politici credo che difficilmente potrei trovarla io. Quel che è certo è che la deriva del progresso, nell’era postindustriale, ha dapprima dissimulato un apparente maggior benessere “per tutti”, per poi rivelare come la distribuzione dello stesso sia in realtà peggiorata. Non si tiene conto, purtroppo, delle conseguenze che questo comporterà a livello sociale. Un po’ come si sta ignorando l’urgenza legata al riscaldamento globale: c’è il rischio che quando si inizierà a capire davvero la gravità di queste situazioni, il punto di non ritorno sarà stato superato.
Il primo passo credo sia anteporre a qualsiasi altro aspetto la qualità della vita di ogni individuo: quindi, anche la qualità del luogo in cui le persone devono vivere. Alla funzionalità per il sistema industriale (o postindustriale) va sostituita la funzionalità per la collettività e per i suoi individui; va riconsiderato l’equilibrio tra la natura e il cemento; e va necessariamente recuperata l’importanza della bellezza. Perché non era una frase fatta, quella di Dostoevskij: la bellezza davvero salverà il mondo.