Due performance delle artiste Arianna Ferreri e Annalisa Deligia animano Please, stanza d’artista di Gianfranco D’Alonzo pensata per ospitare progetti performativi di carattere spirituale
L’8 e il 9 dicembre l’Ambiente #2 del Macro Asilo di Roma ha ospitato le performance di due artiste, Arianna Ferreri e Annalisa Deligia, per Please, stanza d’artista di Gianfranco D’Alonzo pensata per ospitare progetti performativi di carattere spirituale.
L’arte performativa si relaziona per sua natura con il luogo in cui prende forma, e dove essa inevitabilmente instaura delle relazioni con l’osservatore e crea una dimensione spaziale in moto. Essendo la danza la vera arte del corpo in movimento, le infinite presentazioni di questo esercizio fisico ne identificano altrettante sottocategorie. Nel caso specifico, in queste due performance, il movimento stesso ottenuto è disuguale.
Nella prima il movimento, scenico e teatrale, è contenuto da un drappo rosso, la cui plasticità al contempo ne amplifica l’intensità, leggibile come cifra espressiva di una dimensione interna all’artista. La musica di Damoon Keshavarz, sorda e primordiale nella sua aritmia, scorta e segue il movimento del corpo, che a sua volta è scandito dal suono prodotto dallo sgabello che accompagna i suoi spostamenti.
Nella seconda il movimento segue la musica ed i passi dell’artista sono determinati dal ritmo. In scena è il teatro-danza classico indiano della Bharatanatyam, dove immediato è l’accostamento della performance alla categoria ‘danza’, dettato dalla pronta riconoscibilità, nel suo binomio contenuto-contenitore, del movimento neo-classico in senso stretto e del contesto sonoro che lo accompagna. Pur essendo analogo lo spazio-ambiente in cui sono immerse le due performance, queste si caratterizzano autonomamente attraverso le singole dinamiche e lo spazio-scenico che ne deriva.
Le due artiste si servono dello spazio secondo modalità profondamente differenti tra loro. In Ardha la stanza, ed ancora il rettangolo presente sul pavimento, è il contenitore entro cui la sua arte prende forma: la linea sul piano si traduce in recinto, luogo il cui limite definisce la scena. In Possession il rettangolo diventa un semplice disegno geometrico a pavimento, ininfluente in termini di limitazione puntuale. Questa diversa modalità di sfruttamento del suolo ed un altrettanto diverso uso del vuoto nell’utilizzo dello spazio, risalterebbe ulteriormente da una mappatura dell’area scenica esplorata dalle due artiste attraverso il movimento. La Ferreri porta uno spazio interno legato alla spazialità sensoriale con la quale l’artista entra in contatto durante la performance. Fa esperienza della dimensione spaziale della stanza nella sua interezza, disegnandovi, attraverso il movimento, nuove linee e punti in totale autonomia rispetto a quanto l’ambiente-stanza inevitabilmente suggerisce. La Deligia si muove invece all’interno di un’area scenica definita e limitata in senso spaziale e direzionale. Non solo riconosce un disegno preesistente come limite fisico dell’area scenica, ma al suo interno vi compone, attraverso i suoi passi, un ulteriore spazio definito minore al rettangolo già presente.
La libertà di cui lo spettatore stesso inconsciamente dispone, in termini sia di mera collocazione spaziale che di interpretazione dell’opera, è diretta conseguenza dell’utilizzo che l’artista stesso fa dello spazio.
Nella performance della Deligia lo spazio interno che la danzatrice esplora sul piano individuale e spirituale si traduce in una assialità frontale dell’intera performance, in cui viene meno l’esplorazione della spazialità globale in senso fisico, ossia dello spazio scenico in relazione alla cinetica della sua danza. Quest’ultima viene percepita dallo spettatore come proiettata sul bianco piano di fondo dello spazio architettonico, secondo l’impostazione classica della skenè greca. La natura del movimento dell’artista induce, paradossalmente, l’osservatore ad una visione di tipo statico e non suggerisce al singolo uno spostamento all’interno dello spazio.
Il cieco dimenarsi della Ferreri si mostra, al contrario, senza fondale, come una scultura a tutto tondo in divenire, che conseguentemente suggerisce l’esperire lo spazio e l’opera secondo i loro molteplici punti di vista. Lo spettatore fruisce lo spazio-stanza nella sua interezza durante la performance, come immediato riflesso dell’uso che l’artista fa del limite fisico. La pluridimensionalità della sua danza si esprime mediante un’assenza assoluta di direzioni, e si riflette in un uso libero dello spazio da parte dello spettatore, che lo indaga autonomamente.
L’utilizzo dello spazio scenografico in cui la relazione con lo spettatore prende forma è necessariamente uno dei temi chiave nell’analisi dell’arte performativa.
Il punto di vista che una delle due artiste sottende attraverso il suo disporsi all’interno del limite che visivamente contiene la sua performance è frontale e geometrico; l’opera dell’altra si mostra invece priva di confini dimensionali e indeterminata nei punti di vista che offre.
Esiste pertanto una chiara dimensione spaziale intrinseca al concetto stesso di danza, dove il movimento è prodotto all’interno di uno spazio che il danzatore inevitabilmente compone attraverso i suoi passi. Il corpo lo occupa, i suoi movimenti lo plasmano. Si crea dunque, per la durata delle rappresentazioni, un’architettura che dialoga con il moto ed in cui l’interazione spazio-corpo è scolpita nel tempo da una alternanza di pieni e vuoti che il corpo plasticamente riempie ed incide. Lo spazio acquisisce i confini del movimento che ne disegna la forma.
Silvia Orione