Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, il nuovo film di Julian Schnabel con Willem Dafoe, al cinema dal 3 gennaio
«Tutti abbiamo una malattia terminale che si chiama vita»
Julian Schnabel
Julian Schnabel ha vissuto tutti gli aspetti dell’arte al cinema: è artista e regista (Prima che sia notte, Basquiat, Lo scafandro e la farfalla), ma anche protagonista di un documentario che lo vede protagonista: L’arte viva di Julian Schnabel, di Pappi Corsicato. Ora, 22 anni dopo Basquiat (in anticipo sulla febbre che ha coinvolto l’artista negli ultimi anni), Schnabel è tornato a raccontare sul grande schermo un altro pittore amatissimo dal grande pubblico, Vincent van Gogh.
Dopo esser stato presentato in concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema Internazionale del Cinema di Venezia, dove Willem Dafoe -che dà corpo, volto e occhi a Vincent – ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile, Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità arriva nei cinema italiani dal 3 gennaio.
Senza andare troppo a ritroso nel tempo, negli ultimi anni abbiamo avuto Vincent Van Gogh – Un nuovo modo di vedere di David Bickerstaff (quello di Degas: Passion for Perfection, Michelangelo – Amore e morte, Il Curioso Mondo di Hieronymus Bosch e diversi altri), Loving Vincent (il film interamente dipinto su tela) e Van Gogh – Tra il grano e il cielo di Giovanni Piscaglia, solo per citare quelli distribuiti al cinema. Poi ci sarebbero i film TV e altri documentari passati per i Festival (Alla ricerca di Van Gogh, per esempio, Biografilm 2017). Presto in arrivo anche un nuovo documentario del solito Bickerstaff (che, quindi, con tutta probabilità finirà nel calendario della Grande Arte al Cinema di Nexo), Van Gogh & Japan.Il mercato sembra non essere mai saturo del buon Van Gogh. Come di Caravaggio. È il fascino dell’artista maledetto, tribolato, leggendario. E come tutte le leggende attorno al mito fioriscono versioni e letture differenti.
Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità però non il solito biopic, e nemmeno il solito film sull’arte al cinema. Un film di artisti che si indagano tra loro. Van Gogh e Gauguin, all’apparenza, Schnabel e Van Gogh, in realtà. Il regista mostra dall’interno come ci si possa sentire nel momento della creazione di un’opera d’arte, la fatica fisica (e psicologica!), la dedizione totale di un artista per il proprio dono – ma soprattutto mette al centro della narrazione il problema del rapporto tra l’artista e il mondo che lo circonda.
La pellicola ripercorre per episodi il burrascoso rapporto con Gauguin (un’amicizia viscerale e disfunzionale finita con Van Gogh che si taglia un orecchio per farne dono all’amico partito per l’Oriente), quello con l’amorevole fratello Theo, i conflitti con gli abitanti di Arles, la solitudine, il rapporto con la natura e il divino, fino al misterioso colpo di pistola che gli tolto la vita a soli 37 anni.
Il regista, pur attingendo da lettere e biografie, non rimane incastrato nel tranello della pedissequa narrazione, si prende la libertà di immaginare situazioni nuove, inedite ma verosimili, in cui il pittore avrebbe potuto trovarsi durante la sua ricerca artistica per cercare di dar vita alla consapevolezza del pittore olandese per il valore e il significato della propria arte, donandogli una scintilla di inaspettato profetismo: «Maybe God made me a painter for people who aren’t born yet» dice il Van Gogh di Schnabel durante il colloquio con un prete dell’istituto psichiatrico di Saint-Remy che disprezza la sua opera (Mads Mikkelsen).Si rincorrono, nella messa in scena di Schnabel, gli echi di grandi registi del passato, da Bresson a Rohmer, dando vita a veri e propri momenti rivelatori sull’interiorità e sulla poetica di Vincent van Gogh, dominato dall’infinito che si manifesta attraverso la natura. Il vento, per esempio, è una presenza costante, insegue il pittore in ogni spostamento, gli parla, lo ispira, lo perseguita, lo culla. Il pittore olandese difatti, impossibilitato a integrarsi nella società riesce a immergersi con più facilità nella natura, che diventa protagonista della sua opera, trasfigurata anche grazie alla lezione sul colore dei grandi maestri a cui guarda Van Gogh con ammirazione e riverenza nelle gallerie del Louvre: Delacroix, Veronese, Frans Hals e Velázquez.
Van Gogh affronta l’impossibilità di raffrontarsi con l’eternità attraverso la pittura. I fiori sono destinati a sfiorire, le persone a morire, ma quadri e ritratti relegano i soggetti nella possibilità dell’eterno, trasfigurando la loro stessa natura mortale. L’arte può così superare la morte, nell’atto stesso della creazione.
Quello di Schnabel è uno sguardo acuto, profondo. Ha un approccio intellettuale, ma mai sterile, riesce ad essere emotivo senza nemmeno avvicinarsi al pietismo tanto amato da diversi suoi colleghi registi. In questo si è dimostrato perfetto Willem Dafoe, con una performance tanto intensa quanto scarna. Non ci sono “scene madri” o concessioni alla spettacolarizzazione del dolore (spoiler: niente messa in scena del taglio dell’orecchio, se ne parla a fondo, ma nulla si vede) e Dafoe riesce a entrare nel tormento di Vincent e a restituirlo con il corpo e, soprattutto, con gli occhi.
Più che un biopic il film di Schnabel è una ricognizione sulla complessità della creazione, mette in rilievo tramite l’amicizia con Gauguin la diversità dell’approccio alla pittura dei due artistici. Gauguin dipinge attingendo ai ricordi, ai sogni, alle visioni, restituendoli su tela come dato tangibile, per quanto ambiguo. Van Gogh dipinge partendo dalla realtà della natura che lo circonda, imprimendo su tela un arazzo materico di visioni sfuggenti, usa l’interiorità come filtro per interpretare il reale, per addomesticarlo.
Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità è, in maniera quasi miracolosa, un film cerebrale e istintivo che anela a rispondere a una domanda precisa: come ci si può sentire di fronte alla vastità dell’eterno? Perduti.