‘Oh che bel mestiere’ in scena a Cagliari il 9 febbraio
L’aria della “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni è avvolgente, invoglia a contemplare lo spettacolo “Oh che bel mestiere”, di Giuseppe Podda e Bruno Anedda, della compagnia Gramsc, proprio perché ci trascina in un universo sconosciuto o forse dimenticato, quello degli antichi mestieri in Sardegna, come il lavoratore del sale, il lattoniere, il bottaio, l’intagliatore di mobili, la ricamatrice, la riparatrice di reti da pesca sono “is maistusu” (i maestri).
Ogni maestro artigiano ha alle spalle un lungo tirocinio di fatica e sfruttamento, per sopravvivere tra costi e concorrenza deve accontentarsi di un guadagno minimo. Sacrifici e rinunzie fanno parte della prassi corrente.
La messinscena ci porta a Cagliari in un anno imprecisato del primo Novecento. La città ormai travalica le antiche mura del Castello e si protende lungo il porto, affiora la via Roma stile umbertino con i palazzoni dei grandi portici formato torinese. Il largo Carlo Felice è già il nuovo emporio, tra Stampace e Marina come ai tempi dei romani pulsa il cuore commerciale e mercantile. Ha un largo respiro la vita del capoluogo sardo, l’equazione Cagliari uguale Castello non esiste più. Appartiene ai ricordi lontani l’immagine de “su bandidori” che grida lungo le vie della rocca “is sardus foras”: i sardi fuori dalle mura.
La notte di Castello era inospitale per gli indigeni, per i cagliaritani veri, i ceti aristocratici influenzavano ancora ma non erano più egemoni, il presente gli sfuggiva di mano. L’immediato futuro delineava in contorni abbastanza netti, l’emergere prepotente del dinamismo e della volontà di successo della borghesia. Siamo alle spartiacque di un’epoca, il passato permane ma il presente lo sopravanza. Il sindaco del Municipio, della via Roma e del Bastione San Remy, del Terrapieno, Ottone Bacaredda, è il simbolo del trapasso che si caratterizza per l’irrompere sulla scena della vita cittadina di nuovi soggetti sociali: la classe operaia e le masse popolari. Ecco i moti del 1906: i tram buttati a mare, la Quarta Regia presa d’assalto, i casotti del Dazio incendiati. Questa sommossa segna l’affiorare di una nuova coscienza popolare ma non è appunto più di una rivolta animata dalle sigaraie insofferenti figure di una società preindustriale. Dietro agli aristocratici e ai borghesi arricchiti ecco i ceti operai, i pescatori, gli artigiani, le sartine, gli eredi di quella società operaia, nata ancor prima della compiuta unità d’Italia, che ebbe come suo presidente Giuseppe Garibaldi e che raggruppava i lavoratori aperti all’idea repubblicana e pronti a battersi per la giustizia sociale. La storia fa il suo corso, avanza tra rotture e contraddizioni, con gli uomini dei mille mestieri non più rassegnati alla filosofia dei “poveracci siamo e poveracci restiamo”.
L’allestimento si sviluppa su due piani composti da un taglio melodrammatico e da una puntuale ricerca documentaria, con le immagini del ricercatore Ugo Pellis, una voce narrante, ironiche scenette in sardo e in italiano. “Oh che bel mestiere” racchiude un mondo e crea relazioni fra attori e spettatori, stimola il pubblico ad acquisire nuovi saperi, a rielaborare all’interno del proprio sistema culturale i tratti fondamentali dell’identità etnica. Un teatro necessario quindi per osservare i comportamenti umani e le relazioni sociali ma soprattutto capace di cogliere il valore della memoria per comprendere così il presente.
In scena a Cagliari il 9 febbraio, ore 19, Teatro Figlie della Carità nella via Falconi 10, e a seguire nel corso del 2019 nei centri sociali del capoluogo sardo nell’ambito del programma della rassegna cagliaritana del teatro etnico nel circuito organizzato dall’associazione ARTE con il sostegno dell’assessorato cultura dell’Amministrazione comunale, della Regione Sardegna e delle associazioni locali.