La scultura di Antonio Canova è per la prima volta al MANN di Napoli. Oltre 100 opere per raccontare un artista chiave nella storia dell’arte. Visitabile fino al 30 giugno 2019.
“L’ultimo degli antichi e il primo dei moderni”. E’ la definizione che meglio si adatta all’artista Antonio Canova (1757-1822) e alla sua arte sublime, celebrata con una mostra per la prima volta al MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e curata da Giuseppe Pavanello, fino al 30 giugno 2019. Un corpus composto da 12 marmi e 110 opere, tra modelli e calchi in gesso, bassorilievi, modellini in terracotta, disegni, dipinti monocromi e tempere, provenienti dalle maggiori istituzioni culturali nazionali ed internazionali, dalla Gypsotheca-Museo Antonio Canova di Possagno e del Museo Civico di Bassano del Grappa e dal Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo. E’ una mostra che mette in relazione il rapporto continuo, intenso e fecondo che legò Canova al mondo classico, facendone agli occhi dei suoi contemporanei un “novello Fidia”, ma anche un artista capace di scardinare e rinnovare l’Antico guardando alla natura. “Imitare, non copiare gli antichi”, per “diventare inimitabili”, era il monito di Winckelmann, padre del Neoclassicismo, affermazione seguita dallo scultore veneto lungo tutto il corso della sua attività artistica.
E’ un percorso espositivo che si sviluppa su due piani: nella prima parte si focalizza l’attenzione sulle prime opere, sul genere eroico e sul ritratto; nella seconda, invece, nella Sala della Meridiana, l’interesse è rivolto alla scultura funeraria, al rapporto dell’artista con il mondo etrusco e all’indipendenza dai motivi classici.
Ad accogliere i fruitori al piano terra, sono le statue di carattere “forte”, come venivano chiamate dai contemporanei. Prima il gruppo di “Ercole e Lica”, già ideato nel 1790, a cui seguono la coppia dei Pugilatori “Creugante e Damosseno” e, infine, “Teseo in lotta con il Centauro”. Come scrisse Leopoldo Cicognara nella “Storia della scultura”, (1818), con queste opere Canova vuole dimostrare: “come non solo le grazie guidavano la sua mano accarezzando i molli contorni delle membra voluttuose, ma che sentiva tutta la possa erculea per vibrar vigorosa la mazza sullo scalpello, e far volare le schegge dei marmi dalle sinuosità risentite dei forti muscoli degli atleti e dei combattenti”. E’ evidente la sfida intrapresa con i capolavori della statuaria classica, a lungo studiata dall’artista, dall’ “Ercole Farnese” ai “Tirannicidi” di Napoli, dal “Gladiatore Borghese” ai “Colossi di Montecavallo”.
Si susseguono una serie di bozzetti all’interno di teche di vetro, in cui si evince il modus operandi dell’artista che pianificò dei processi di lavorazione che gli consentivano di non affaticarsi, lasciando agli aiutanti dello studio i compiti non creativi. “Abbozzare con fuoco ed eseguire con flemma”. Da questa espressione di Winckelmann si comprende il metodo “canoviano”, dalla creta al marmo finito. Dal bozzetto dove veniva fissata la prima intuizione, egli passava a un modellino in gesso che gli permetteva uno studio più approfondito. Si procedeva a realizzare il modello di creta, grande al vero, e poi a quello in gesso, su cui venivano fissati i “punti” chiave. In questo modo gli allievi potevano procedere con compassi, fili a piombo e telai alla sbozzatura del marmo in più, per consentire allo scultore di dare “l’ultima mano”. Una fase importantissima del lavoro esclusivamente riservata all’artista che dava gli ultimi tocchi a lume di candela.
La prima parte della mostra si chiude con i ritratti, in cui cercò sempre di dare delle connotazioni eroiche o mitologiche ai personaggi che doveva effigiare. Un esempio è “Francesco II d’Asburgo-Lorena” , raffigurato come imperatore romano; “George Washington” nelle sembianze di un antico condottiero; “Maria Luisa d’Asburgo Lorena” come la “Concordia”, a sottolineare la pace raggiunta fra gli Imperi d’Austria e di Francia.
Su tutti, si impone nell’exihibit il marmo del “Ferdinando IV di Borbone”, re delle Due Sicilie, come un nuovo Pericle. Un capolavoro intriso delle idealità neoclassiche e, al contempo, proiettato nella retorica di stampo ottocentesco, ben in anticipo sulla statuaria fatta di squadro della forma e di rigore che si imporrà negli anni a venire.
Nella bellissima Sala della Meridiana continua il percorso espositivo. Una comparazione visiva tra scultura e pittura è visibile nelle “Tre Grazie” provenienti dal Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo e il dipinto “Le tre Grazie che si abbracciano fra loro”. Nel gruppo scultoreo, ammirato per l’eccezionale perizia tecnica, le tre giovani figure femminili sono colte in un sussurrante colloquio: l’archetipo mitologico si cala nel presente; una situazione contingente assurge alla sfera della bellezza ideale. Uno e trino, il gruppo si qualifica come variazione del nudo femminile. Il ritmo all’impianto compositivo avviene attraverso l’abbraccio. Nel quadro, invece, le “Tre Grazie” hanno l’aspetto non di creature divine, ma di amiche che sussurrano confidenze, creando una versione moderna e divertita della rappresentazione.
L’affermazione pubblica di Canova avvenne grazie a imponenti monumenti funerari innalzati alla memoria di due pontefici. Nel modellino presente in mostra, il “Monumento di Clemente XIII”, riprende e rinnova tipologie di opere funerarie antiche, con esiti stilistici simili alle creazioni dello scultore francese Houdon, di nobile semplicità e grandezza, mentre già compare la porta del sepolcro, dal forte significato simbolico, confine tra la vita e la morte.
Tra le opere “canoviane” che la critica ha avvicinato ad una generica influenza dell’arte etrusca, vi è la statua di “Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice”. Probabilmente la posizione della donna potrebbe rimandare ai personaggi femminili distesi, rappresentati su urne volterrane che l’artista vide nel volume “Museum Etruscum” di Anton Francesco Gori, presente nella sua biblioteca. Moltissimi disegni sono stati tratti da questa raccolta, formando il celebre taccuino di Possagno.
Un Canova “pittore”, invece, è visibile nei monocromi del Museo Civico di Bassano del Grappa. Dipinti a tecnica mista, con impiego di tempera a colla, carbonato di calcio, pigmenti ocra, bruno e nero, biacca; alcuni su tela grezza, altri su fondo preparato di colore grigio, talvolta con quadrettatura a matita. L’artista vi dedicò un ristretto arco temporale, (1805-1806). Sono progetti per bassorilievi, anche di carattere funerario, portati ad un avanzato stato di elaborazione. Emerge un rapporto dialettico fra la povertà della materia e l’essenzialità della forma che sprigiona luce ed energia.
Non solo l’Antico come riferimento estetico, ma anche come motivo di indipendenza. E’ il caso della “Maddalena penitente”, soggetto di caratura religiosa. E’ una sfera estranea dalla ricerca del bello ideale, in cui prevalgono confini volutamente ambigui, tra il sacro e il profano, nella resa appassionata del nudo e, al contempo, di una commovente espressione della religiosità. Tutto tende a trasformare in immagine la sofferenza interiore.
A concludere visivamente ed emotivamente la mostra, alcune fotografie di Mimmo Jodice riprendono dei dettagli di “Ebe” e “Amore e Psiche stanti”.
Un’esperienza immersiva, invece, per un viaggio che va dal micro al macro, dalla farfalla di “Amore e Psiche” al gigante Ercole che scaglia Lica, ai grandi miti scolpiti nel bianco marmo, fino alle tempere policrome sul fondo scuro dedicate alla danza, sono le installazioni ospitate in due architetture scenotecniche che offrono ai visitatori una esperienza ricca di dettagli e narrazioni dedicati a uno dei più appassionanti processi creativi della storia della scultura europea.