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USELESS OBJECTS. L'(in)utilità dell’opera d’arte in mostra a Torino, una riflessione espositiva

Federico Caputo, Frutta Verdura, tela antimacchia, imbottitura di poliestere e cassa (legno, plastica, cartone), 2019. Federico Caputo, Frutta Verdura, tela antimacchia, imbottitura di poliestere e cassa (legno, plastica, cartone), 2019.
Federico Caputo, Frutta Verdura, tela antimacchia, imbottitura di poliestere e cassa (legno, plastica, cartone), 2019.
Federico Caputo, Frutta Verdura, tela antimacchia, imbottitura di poliestere e cassa (legno, plastica, cartone), 2019.

Come viene costruito il significato e il valore dell’arte, e chi ha il diritto di decidere?

Questa la difficile domanda che la giovane curatrice Caroline Ellen Liou (Los Angeles, 1991) pone a ciascuno di noi nella mostra Useless Objects, organizzata presso l’Associazione Barriera di Torino e visitabile fino al 18 maggio. Per questo progetto Liou ha chiamato tre artisti italiani, che hanno accettato la sfida di svelare e problematizzare i processi che portano determinati oggetti, spesso apparentemente inutili, ad essere considerati opere d’arte.

Il percorso di mostra inizia con l’esposizione di un lavoro di Paolo Cirio (Torino, 1979), Art Commodities (2014), una mappatura sintetica dell’attuale sistema dell’arte. Concepita come un diagramma di flusso, la mappa cerca di riassumere quali siano i soggetti che operano in questo settore e come, attraverso relazioni plurilaterali, definiscano ciò che può e deve essere considerato “arte”. L’opera mostra come quest’ultima sia il risultato dell’azione congiunta di una serie di soggetti economici (investitori, collezionisti, rivenditori, gallerie d’arte) e culturali (accademie, istituzioni, critici e musei), che codificano un sistema di valori, imponendolo all’esterno come vademecum per il riconoscimento dell’opera d’arte.

Federico Caputo, San Carlo e Fonzies, tela antimacchia, filo di cotone, filo di lana e imbottitura di poliestere, 2019
Federico Caputo, San Carlo e Fonzies, tela antimacchia, filo di cotone, filo di lana e imbottitura di poliestere, 2019

Il lavoro di Federico Caputo (Sanremo, 1995) invita il visitatore a pensare all’identità dell’opera d’arte in modo più diretto, e certamente più giocoso. Ispirato dal readymade duchampiano e dagli artisti pop americani (Claes Olbenburg in primis), Caputo ricrea, cucendoli a mano, oggetti della propria quotidianità. Dal momento che “nulla è più distintivo e raffinato della capacità di conferire uno status estetico ad oggetti banali o persino comuni”, per citare Bourdieu, la seconda sala della mostra si popola di cassette di frutta e verdura, bottiglie, pacchetti di patatine, panni stesi e loghi di marchi famosi, tutti rigorosamente realizzati con ago e filo. Riflettendo sul sistema dell’arte come sistema di mercato, nel ricreare ex-novo meri oggetti di consumo presentandoli in un contesto espositivo, Caputo pare invertire e ironizzare per un attimo sul processo di elevazione dell’oggetto a opera d’arte.

Anna Canale, Stand by me, installazione, 2019
Anna Canale, Stand by me, installazione, 2019

Con un effetto quasi straniante, l’ultima sala della mostra lascia spazio aStand by me (2019) di Anna Canale (Torino, 1990). L’installazione ripropone un gift shop museale, dove cartoline, t-shirt e tote bags presentano non la riproduzione ma la didascalia di lavori iconici della storia dell’arte. Venuta a mancare la loro immagine usualmente riprodotta sull’oggetto di consumo, e sostituita da una descrizione verbale, Canale s’interroga (e ci interroga) su che cosa l’opera d’arte sia per davvero (la sua immagine, la sua materialità, la sua definizione?) e su quali siano i fattori che la rendono tale (la sua appartenenza a un determinato contesto?). Il cortocircuito si completa nel momento in cui il visitatore prende e, a titolo gratuito, porta a casa questi oggetti,attivando dunque un modello di circolazione dell’opera d’arte alternativo, libero da ogni imposizione del sistema.

Paolo Cirio, Art Commodities, vinile prespaziato, 2014.
Paolo Cirio, Art Commodities, vinile prespaziato, 2014.

Come specificato da Liou nel saggio di introduzione al catalogo, le “opere d’arte sono gli “oggetti inutili” per antonomasia: acquistano significato solamente dopo che i componenti del pubblico conferiscono loro un valore intellettuale, culturale ed economico”. Contrariamente alla passività di un pubblico a cui il sistema presenta opere d’arte, la mostra Useless Objects ha il merito di risvegliare la consapevolezza del visitatore, interrogandolo su quale sia il suo ruolo in questo processo di legittimazione dell’opera d’arte e su cosa egli stesso si aspetta che essa sia.

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