Piero Percoco vive e lavora a Sannicandro in provincia di Bari dal 1987. Questo dato anagrafico racconta in verità molto di più della semplice informazione che ne deriva. Perché per un giovane fotografo decidere di “insediarsi” e rimanere nel fortino dell’estrema periferia, dove è nato e cresciuto, equivale ad una missione per la quale, probabilmente, ci vuole più coraggio rispetto che al partire.
Certo, le motivazioni del restare posso essere molteplici e magari a noi sconosciute, ma da questa marginalità territoriale nasce e si sviluppa la forza del suo lavoro che non è certo autoreclusione. Anzi ne è uno stimolo, una sfida maggiore ad essere un baluardo narrativo, testimone di una territorialità ritenuta poco interessante, forse perché poco scintillante, e poco esplorabile.
Sono le atmosfere del Sud Italia, di un piccolo paesino sul mare che non conosce turismo di massa, dove, nella provincia che rifugge e scimmiotta la grande metropoli, sono ancora ludici gli spasmi di esistenze non ancora (troppo) globalizzate, tempi dilatati scanditi dalla non fretta, il piacere delle piccole cose, la buona cucina casalinga, tavole bandite senza inutili orpelli su tovaglie a quadretti, case basse, cieli puliti, il lungomare, il silenzio della notte, luoghi dove ancora la natura riesce a relazionarsi con l’uomo e l’uomo ha ancora l’attitudine di stupirsi per gli eventi della natura.
Questione di attitudine. Semplicità delle cose importanti ma anche tradizione e chiusura al nuovo. Percoco si muove in questo humus. Usa la fotografia per narrare le contraddizioni del posto e dei suoi abitanti. Racconta una realtà a misura di ordinata incoerenza.
La forza del colore nitido come strumento per narrare la schiettezza della realtà, acida e fugace e allo stesso tempo viva ed intensa. Per chi guarda con occhi da cittadino le dinamiche quotidiane di questo piccolo formicolaio di esistenze ritratte da Percoco con sottile naturalità, si svela un modo composto di sagace umorismo leggero, seppur evidenziato nella sua teatralità (altra peculiarità del lavoro), che nelle città è stato silenziosamente, progressivamente, sostituito dal traguardo dall’efficienza competitiva e collettiva.
Peroco vive e ritrae questo lontano confine di “esistenze periferiche” ai margini della modernità funzionale cogliendone l’aspetto umano, più semplice e quindi potenzialmente grottesco perché senza filtri, nella sua caduca essenziale fragilità, con ritmi, valori e regole condivise dalla comunità locale.
Poche sono le risorse, esigui gli stimoli e gli svaghi, qui si vive di cose semplici oppure provenienti dall’onda esile del capoluogo. Le possibili diversità, anche solo estetiche, sono codificate come “stranezze” e istintivamente poco accettate o rifiutate.
A volte il fotografo si “traveste” da turista per non essere identificato e poter girare liberamente con la macchina fotografica a cercare ritratti o scene da immortalare. Così mimetizzato passa inosservato e tutto gli è concesso nell’indifferenza generale sul viaggiatore curioso e spaesato.
Gli scatti sono tutti spontanei, frutto di incontri occasionali, le scene non sono programmate, la gestualità è catturata spontaneamente dal fotografo che segue d’istinto con un fiuto animalesco l’istante da catturare. Il suo è un lavoro di reportage all’interno di una narrazione biografica quotidiana, un fotografo di strada che coglie l’anima della periferia del mondo nella prigione della sua ricca povertà.
– Perché sei diventato fotografo, cosa ti ha spinto a seguire questa strada: ci racconti il tuo percorso?
Non è stata una scelta, ma un’energia che mi ha spinto fortemente ad esplorare, la mia vita tutto quello che mi circonda, attraverso l’uso di una fotocamera, molto impulsivamente.
– Cosa vuoi raccontare con le tue foto, qual è il tuo messaggio?
Non ho mai capito cosa volevo davvero raccontare, ma so di per certo che con il tempo ho capito che stavo raccontando proprio la mia vita, sono sempre andato molto “di pancia”, impulsivamente come il mio carattere, o meglio come un animale predatore che istintivamente attacca per poter mangiare la sua preda.
– L’uso dello smartphone e dei social sintetizza da un lato un’attitudine generazionale di consumo e velocità ma tu ugualmente riesci ad essere spiazzante, riflessivo, forse anche per il tuo generoso entusiasmo emotivo, cosa ne pensi?
Penso che anche l’utilizzo del social stesso sia stata una scelta molto poco pensata, faccio fotografie da circa 10 anni, Instagram è stata ed è un’arma a doppio taglio. Puoi essere “etichettato” come “influencer”, non mi definisco affatto un influencer, e me ne sono sempre fregato dei parametri di ogni tipo, penso che se ci si concentri un attimo sul contenuto a prescindere che sia Instagram o altro si percepisce qualcosa di più sedimentato. L’uso dello smartphone è stato inconsapevole anche quello, con questo voglio concludere questo pensiero dicendo che la cosa principale in assoluto è essere se stessi fondamentalmente. Per cui, mezzi, social network e regole sono solo dei mezzi con cui viaggiare.
– Fotografo di strada? Come scegli i tuoi personaggi?
Direi più fotografo intimo, sotto tanti punti di vista.
Vengo attratto dalle persone dalla loro aurea, dall’energia che emanano.
– Ritratti della natura con colori forti quasi a marcarne la bellezza.
Collegandomi alla natura, per me che vivo in un piccolo paese di provincia (BARI) la natura è quasi alla base di tutto. Non riuscirei a vivere in una città, ho bisogno del contatto con la natura, per sopravvivere, è una meditazione continua con essa. Mi capita spesso con gli anni di fotografare i frutti della casa in campagna dei miei nonni, delle lunghe passeggiate. Dei colori che fanno parte della mia infanzia a partire dall’asilo.