Citare. “Ogni atto creativo è unico e senza precedenti; si richiama a eventi passati solo citandoli, ossia sradicandoli dal terreno dove sono cresciuti e quindi distruggendone, anziché ricrearne, il senso originario”. Lo dice Zygmut Bauman, uno dei più influenti intellettuali del secondo ‘900, nel “Disagio della Postmodernità, ma qui, l’Accento, è messo sul tallone di Achille dell’artista postmoderno, quando, e il più delle volte, si limita a citare un artista o stile, o fa un rimando in modo sterile al passato, all’antico o “classico”, nell’accezione in cui lo intende anche Salvatore Settis, nel “Futuro del classico”. Il progetto “Accenti”, in corso fino al 1 luglio, al Museo Marini di Firenze potrebbe costituire un’eccezione?
Sconfinare. Il percorso che si snoda in tutte le sale e i piani del museo tocca anche il capolavoro quattrocentesco, che contiene il museo. Non solo un telo rosso che si srotola in verticale, un saliscendi lungo le altezze e i piani, le installazioni nella zona più recondita e le opere appese come lenzuoli dei tre artisti russi contemporanei, rispettivamente, Andrey Kuzkin, Ivan Plusch, Irina Drozd ma c’è anche, nella sala della riproduzione ideale del sepolcro di Cristo, un gioco di riflessi tra le incisioni di tre donne e appunto, il Tempietto della superba Cappella Rucellai, opera dell’architetto Leon Battista Alberti. Il museo di arte contemporanea Marino Marini, proprio per la coesistenza di un pregiato tempio (in avorio) tuttora consacrato, costituisce a tutti gli effetti un unicum nel panorama artistico, almeno italiano.
Un unicum che da quest’anno propone anche il primo appuntamento per un programma eccezionale di Visiting Director. Si parte da Dimitri Ozerkof, responsabile del Dipartimento di Arte Contemporanea del Museo Statale Russo Ermitage di San Pietroburgo, che ha ideato la mostra “Accenti”. Si mette l’accento, appunto, un veloce sguardo, su diverse realtà: su quella del “codice del silenzio” delle violenze subite dalle donne in luoghi come monasteri femminili, o chiese, nel lavoro di Drozd, un focus dal filo rosso di Plusch che è un tappeto che attraversa tutto lo spazio museale, un filo ininterrotto tra le esistenze, tra antico e presente. E l’accento sconfina nel segno della intertestualità anche sulla figura delle tre donne delle incisioni quattro- cinquecentesche, Giuditta, Giaele e Dalila, che hanno trasgredito alla prima regola femminile dell’obbedienza alla dea Tacita Muta.