Milano. Onnipresente. La città dove cercare di far qualcosa, uno studio abbastanza piccolo, condiviso, ordinato, non so se per la mia presenza o per abitudini lavorative. Via Marco Aurelio. Ci sono maschere attaccate al muro, maschere nere, lucide, orgogliosamente minacciose. Volti urbani che possono riposarsi a parete dopo essere stati tribù, gang, corpi roboanti, gemme di periferia. Carene di scooter che smettono di stare in strada, feticci di libertà adolescenziali, di aggregazioni, di qualsiasi tipo. Pezzi di scooter che vengono prelevati per diventare mostri, creature letterarie o cinematografiche, nuova comunità, vera o finta che sia: sono lì appiccicate alla parete: un plotone, una squadra, ragazzi che interpretano una parte.
C’è un sellino, sempre nero, con due graffi, due tagli. Sotto della gommapiuma gialla a simulare due occhi allungati. Pezzi che smettono di viaggiare e si ritrovano ad essere immobili, vecchi totem a dettare una narrazione, una conversazione. Sulla parete bianca, allineati come fossero oracoli, probabilmente lo sono. Gli potresti chiedere tutto, domande imbarazzanti e stupide, che cos’è una città, che cos’è un quartiere, che cos’è l’adolescenza, la violenza, il primo sesso, potere tutto, l’odio. Siamo davanti al computer a guardare il suo portfolio, alla mia sinistra una piccola libreria con una collezione di classici della fantascienza, collana Urania. Mi fa vedere una vecchia edizione trovata in un mercatino del libro tibetano dei morti. Un sincretismo culturale raccolto in pochi metri quadrati. Che cosa unisce Asimov, il Tibet, l’Italia della provincia, un motore cinquanta, Carpenter e delle maschere che sembrano cosparse di petrolio? Mi dice che Milano non è la sua città, che viene dalla Romagna e un mezzo con cui spostarsi significava emancipazione e tutto quello che ne poteva conseguire (buono o cattivo).
Alterno la vista dello schermo a quella della stanza, le maschere sono sopra di noi: psicoterapeuti con voci metalliche, divinità di inizio millennio. Mi confida che ormai preferisce abitare da solo, senza coinquilini, mi racconta di quando si trasferì a Milano, in uno squat in Corvetto. In quella zona ha iniziato uno dei suoi primi lavori, individuava carcasse di automobili abbandonate da tempo, le ridipingeva d’oro e le lasciava nella stessa posizione in cui le aveva trovate. Esattamente immobili e tutto intorno cambiava. Dopo poco sparivano, come fosse oro vero, da poter rubare comodamente, senza alcun intralcio. Macchine inagibili che diventano giganteschi lingotti appoggiati lungo una strada, vicino ad un campo. Il confine fragile tra un’automobile e una carcassa d’oro, tra uno scooter e un oracolo. Scorro sullo schermo e vedo una fotografia (Strong Belief, 2016), lui è perfettamente incastrato in un arco di metallo, di quelli che si trovano sui marciapiedi, a cui spesso si legano biciclette. Non si vede il volto, le mani sono appoggiate a terra, sembra uscire da una porta, sembra potersi trasformare, un colpo di scena, fantascienza portata in città. Confini d’invenzione.
Non è la prima volta che ci vediamo, è però la prima volta che ci presentiamo ufficialmente e che entro nel suo studio, è un quartiere ancora tranquillo, usciamo per bere qualcosa, è quasi mezzogiorno. Dietro al bancone c’è una donna non troppo simpatica, capisco che Marco Ceroni è di casa, offre lui. Penso se sia plausibile una città in cui le maschere/scooter vengano appese agli angoli delle vie, come l’oggetto che si fa rito, mi chiedo se sia veramente possibile che una carena oltrepassi la soglia della strada e diventi momento assoluto, volto da riverire e tentare di accarezzare con la dovuta circospezione. C’è caldo, ho paura del caldo. Penso al sellino appeso nel suo studio, a quelle due ferite che sembrano occhi allungati, occhi di gommapiuma gialla. Un taglio per iniziare a vedere, un taglio dove non ci dovrebbe essere, dove ci sono sempre stati due occhi senza pupille. Una violenza per guardare.