Fino al 22 luglio, il Musée Jacquemart-André di Parigi ospita una retrospettiva in 48 dipinti sul più drammatico e intellettuale degli artisti scandinavi del secondo Ottocento: Vilhelm Hammershøi. Con prestiti eccezionali dalla Loeb Danish Art Collection, oltre che musei scandinavi, inglesi e statunitensi.
Parigi. I suoi quadri destarono persino l’ammirazione di Pierre-Auguste Renoir, e, assieme ad Anders Zorn è considerato il capostipite della moderna pittura scandinava. Ma a differenza del collega svedese, che prediligeva colori caldi, scene di genere e decorative, Vilhelm Hammershøi (1864–1916) scelse una pittura estremamente introspettiva, dai colori assai più tenui, che non aprono il pensiero alla gioia o al piacere, ma scendono lentamente nell’anima come residui di vecchi ricordi, vi s’insinuano e, come archetipi senza tempo, danno vita a una memoria condivisa in cui si specchia un intero popolo. Per questa ragione la sua pittura ha carattere letterario, ogni singola opera è un capitolo per immagini del romanzo di una società e di un’epoca; un grande affresco intriso di silenzio e meditazione.
Sin dall’infanzia Hammershøi si sentì portato per la pittura, che studiò approfonditamente all’Accademia delle Belle Arti di Copenaghen fra il 1879 e il 1884, e guadagnò riconoscimenti anche in Italia dove ancora oggi, paradossalmente non è molto noto al grande pubblico, ma nel 1911 ottenne il primo premio all’Esposizione Internazionale di Belle Arti a Roma, e l’anno seguente la Galleria degli Uffizi gli commissionò un autoritratto che fa ancora parte della collezione permanente.
Nonostante i numerosi viaggi compiuti in Europa (visitò infatti Belgio, Olanda, Francia, Germania, Inghilterra, Italia), al pari del tenebroso Vittorio Alfieri trovò Londra la città straniera più congeniale al suo temperamento; ne apprezzò infatti le atmosfere nebbiose e quei sottili, introspettivi giochi di luce cui davano vita, utili non soltanto per virtuosismi pittorici e studi di atmosfera, ma anche e soprattutto per ritrovarvi una via d’accesso all’introspezione come poteva accadere in Danimarca. In un certo senso, i suoi dipinti rispecchiano la sua personalità introversa e taciturna: quella tavolozza scura, dove il grigio è prevalente, è la traduzione cromatica di una volontà contemplativa, immersa in un silenzio a tratti inquietante; Hammershøi dilata le ombre scandinave, le contestualizza nell’Europa inquieta di fine secolo, in cui la modernità dirompente apriva vuoti spirituali sempre più vasti. Per questa ragione, le sue opere più riuscite sono quelle in interno, volte a indagare gli spazi più intimi dell’individuo, colto sempre in attività domestiche: scene in cui le figure umane, così come la mobilia solenne degli interni, esprimono un severo rigorismo luterano, e non casualmente il regista Gabriel Axel vi trasse ispirazione per le scenografie de Il pranzo di Babette, tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen. Tanto forte era la partecipazione intima del pittore alle sue opere, che su un articolo apparso sul quotidiano danese Politiken il 21 novembre 1911, si poteva leggere come «fare una visita a Hammershøi a casa sua, sia come entrare nei suoi quadri». La medesima atmosfera sommessa, ovattata, sfondo a una pittura quasi spettrale.
La scena familiare non era di per sé una novità nella pittura danese, in quanto gli artisti artisti della vecchia generazione sui quali si era formato all’Accademia – Christoffer Wilhelm Eckersberg, Constantin Hansen, Christen Købke, Vilhelm Kyhn -, vi si erano ampiamente dedicati. La modernità di Hammershøi sta nell’aver avvolto queste scene topiche in un’atmosfera rarefatta, silenziosa, sottilmente angosciante, che rispecchiava il sentire della società europea della fine del secolo, stretta fra la crisi del Positivismo e i primi squilibri dell’industrializzazione, nonché del materialismo che stava prendendo il sopravvento sulla spiritualità dell’esistenza. I suoi borghesi sono altrettanti insicuri e angosciati quanto quelli di Gustav Klimt, emanano un’inquietante estraneità, sono pallidi spettri reminiscenze di vite già vissute, esprimono una metafisica del vuoto, che ricorda quella dei coevi drammi di Ibsen.
La stessa natura è interpretata da Hammershøi su toni spenti, perennemente invernali, e nella totale assenza della figura umana, a ribadirne la grandezza fisica e concettuale. Una sorta di vasto mare dantesco, che a tratti viene a suo modo umanizzata; gli alberi che ad esempio compaiono in Paysage d’hiver (Søndermarken) del 1896, sembrano tante figure umane piegate sotto la neve, soldati di una causa lunga e difficile, forse giusta o forse sbagliata, quale è l’esistenza.
Hammershøi fa parte della corrente moderna della cultura scandinava, assieme a Zorn, Jacobsen, Munch, Ibsen; ne incarna il lato più drammatico e introspettivo, inglobandone i silenzi e le ombre. Ma il ragionamento non è limitato all’identità locale, perché questa viene proiettata sullo sfondo delle inquietudini che tormentavano l’Europa alla fine dell’Ottocento, e trova rispondenza nella scena artistica europea che esprimeva i vari Klimt, Van Gogh, Lautrec. Ma più in generale, rientra nel solco del pensiero di Kierkegaard e avrà continuazione in quello di Sartre.
*Vilhelm Hammershøi, Interno, Strandgade 30, 1899. Ambassador John L. Loeb Jr. Danish Art Collection