Sono stati necessari 58 anni per completare un cortometraggio animato che, nonostante non sia molto conosciuto, ha tutte le qualità di un’opera unica e leggendaria. Il corto in questione è Destino, realizzato da Salvador Dalì e Walt Disney.
“Sono venuto a Hollywood e ho incontrato tre grandi surrealisti americani: i fratelli Marx, Cecil B. De Mille e Walt Disney”
Salvador Dalì in una lettera ad André Breton
Mentre una ballata malinconica inizia a sussurrare le sue note in un arso deserto di sabbia chiara, un profilo montuoso si staglia lontano all’orizzonte. Con la rapidità di un miraggio i picchi irti al centro della catena si affievoliscono e dalla roccia si stacca il profilo di una donna: curve flessuose e disorientanti, lunghi scuri capelli e occhi voluttuosi coperti da ciglia nere e tristi. Avanza decisa verso di noi e ne siamo già ipnotizzati. Ma il suo sguardo vibrante è diretto verso una piramide di pietra, davanti a lei, nella quale è inscritta una statua raffigurante Crono. Il tempo. La donna scuote la testa, raccoglie i pensieri. Chiude gli occhi. Il destino.
Questo primi venti secondi di girato appartengono a quello che per 58 anni è stato l’incompiuto progetto animato di Walt Disney e Salvador Dalì. Per più di mezzo secolo di questo cortometraggio, intitolato Destino, non esistettero che questi pochi secondi realizzati dall’artista spagnolo negli studi americani della Disney. Era il 1946 e, dopo alcuni mesi di intenso lavoro, la casa di produzione dovette interrompere la collaborazione per mancanza di fondi. Ma l’idea era così ambiziosa che resistette nel Morgue, l’archivio-purgatorio dove la Disney tiene tutti i progetti incompiuti, fino a che il bisnipote di Walt, Roy, si imbatté in questi magici secondi e decise di riprendere in mano il lavoro.
Ma facciamo un passo indietro. Nel 1944 Dalì è ormai un artista celebre in tutto il mondo occidentale e al momento si trova a Los Angeles per collaborare con Alfred Hitckock. Avrebbe dovuto solamente allestire la scenografia per una singola scena del film Io ti salverò, che il regista aveva già immaginato in perfetto stile surrealista. Sfida intrigante ma non impossibile per Dalì che, oltre alla sua più nota vena pittorica, si era già cimentato nella scultura, nella fotografia e anche nella cinematografia. Un eclettismo che destava un interesse in grado di avvolgere l’intera persona di Dalì, andando oltre la sua attività professionale e accompagnandolo nella vita quotidiana. Anche se probabilmente, quando Walt Disney lo incontrò ad una festa organizzata da Jack Warner a Los Angeles, la fama dell’artista lo precedeva di gran lunga. Fu un incontro rivelatore di due animi affini; quantomeno su due binari: da una parte condividevano una profonda sensibilità verso l’universo surrealista – animato da creature irreali, metamorfosi, sogni assurdi e fantasie irrefrenabili; dall’altra parte sentivano entrambi di essere creativi, artisti d’elite desiderosi però di raccogliere gli applausi anche del grande pubblico: una loro collaborazione avrebbe garantito ad entrambi di raggiungere questo obiettivo. Fu così che, senza indugi, il progetto ebbe inizio.
Affiancato da uno degli animatori storici ed esperti di Disney, John Hench, l’artista iniziò a disegnare le tavole che avrebbero dovuto comporre il cortometraggio. A rappresentare la vera sfida non fu tanto la capacità di Dalì di calarsi nel mondo dell’animazione – che anzi presto scoprì particolarmente congeniale nell’esaltare la sua poetica fatta di contorte figure oniriche, simboli criptici ed elementi che si sovrappongono e mutano per crearne degli altri – ma nel contenere l’entusiasmo che questa nuova esperienza generò in lui. Un turbine di idee così rapide da non fare in tempo a fissarsi sul foglio: nonostante Hench assecondasse volentieri le eccentricità dell’artista – come, per esempio, quella di avere in studio animali vivi a cui ispirarsi – e Dalì si fosse rivelato un assennato lavoratore, in 8 mesi i due realizzarono solo quei secondi di girato. Troppo poco perché la Disney continuasse ad investire su un progetto così ambizioso, forse anche troppo deviante da ciò che il pubblico era abituato a vedere, soprattutto alla luce della rischiosa situazione debitoria in cui si trovava al tempo. Così, a malincuore e senza rancore, il corto fu accantonato.
La storia, come avremmo visto poi, si sarebbe dovuta incentrare sulla strenua ricerca da parte della fanciulla (forse un legame con le principesse Disney?) del suo amato. Nell’onirica dimensione dei loro desideri si sarebbero cercati, affrontando le impervie che il tempo, autore della caducità umana, e il destino, segreto burattinaio dell’esistenza, avrebbero messo sulla loro strada. Questo lo sappiamo grazie ad un altro intricato e fortunoso gioco del fato, che ha portato Roy Disney ad imbattersi in Destino mentre era alla ricerca del materiale per il seguito di Fantasia. Pochi secondi, ormai lo sappiamo, ma estremamente suggestivi e intriganti, che indussero il produttore a richiamare Hench (ormai in pensione) e ad affidare la conclusione del progetto al distaccamento parigino della Disney. Era il 2003 quando finalmente Destino venne alla luce. 58 anni da quando la ragazza dalle ciglia tristi ha chiuso gli occhi immergendosi nei suoi desideri a cui però, fortunatamente, possiamo prendere parte anche noi.
Chiusi gli occhi si apre il mondo dell’inconscio, dove la ragazza abbraccia la piramide di Crono nel tentativo di afferrare il tempo, quello della giovinezza forse, che le sfugge senza che abbia trovato il suo amato. Da qui si apre un percorso tra il delirante e il romantico dove la protagonista sale una torre a spirale affollata da manichini antropomorfi che simboleggiano gli amori futili e falsi, che lei supera fino a impigliarsi nel dito puntato di creature a forma di occhi, allegorie della società che giudica. Spaventata la fanciulla si rifugia all’interno di una conchiglia, rappresentante della femminilità. Lungo tutto il cortometraggio si rincorrono infatti simboli maschili (la piramide, la torre) e altri femminili (la conchiglia, la fontana) nel racconto di un rapporto che la sorte si ostina a mantenere dicotomico. Uno dei vertici più lirici giunge ora, quando in un gesto di estremo desiderio di conciliarsi con il tempo la ragazza si congiunge con l’ombra di una campana – comparsa sulla torre – proiettata al suolo, come se così facendo potesse allinearsi con il rintocco delle ore che scorrono.
Ed effettivamente il gesto disperato si rivela liberatorio: la fanciulla si lascia andare ad una danza sensuale e spensierata, tanto che per la prima volta il destino cede. La statua di Crono si crepa e lascia fuggire dalle briglie del fato la figura di uomo. Se i suoi tratti rimangono misteriosi, la sua intenzione di raggiungere l’amata è chiaro, nonostante un uccello picchietti sull’orologio al polso come a ricordargli la caducità della sua condizione. Un intenso gioco di sguardi, un passo reciproco uno verso l’altro e l’incanto naufraga nelle sabbie mobili del deserto che si ritrae lasciando emergere una cinta muraria che racchiude l’uomo e separa gli amanti. La disperazione della donna si trasforma allora in un piccolo stormo di rondini che raggiunge la figura maschile e lo conduce fuori dalla prigione increspando la sorte. Una volta uscito, l’uomo finalmente si svela rivelandosi come un giocatore di baseball (forse l’elemento più disneyano, e fuori luogo, del cortometraggio). Qui la ragazza si costruisce dall’accostamento di due volti di profilo, contorti e deformi (forse proprio quelli di Dalì e Walt Disney), e sotto gli occhi increduli del giocatore si tramuta in una pallina da baseball che lui può colpire con la mazza, scappando insieme a lei lontano da tutto.
Finalmente soli, finalmente insieme, finalmente stretti in un passionale abbraccio. Ma è solo un attimo, il tempo ritorna inesorabile sciogliendo la ragazza e lasciando solo la sua veste, intessuta di amore e rimpianto. Il destino avverso sembra avere avuto la meglio sugli amati e la statua di Crono torna a riempire lo schermo. La sua solidità e imperscrutabilità sono però incrinate: l’inquadratura si ferma proprio all’interno di questa crepa, dove dietro si intravede il profilo della campana, tornata sulla torre, che rimanda chiaramente al corpo della donna. Un ultimo malinconico segno di speranza che chissà, prima o poi, potrebbe avere la meglio su un destino scritto male. D’altronde alcune cose sono destinate a compiere viaggi di 58 anni, sopravvivere alla morte, ingannare il tempo e vedere la luce quando ormai la sorte per loro non aveva previsto che buio.
*Salvador Dalì e Walt Disney