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Il curatore? È come il capo nelle tribù indiane. Due saggi per indagare un potere “non autoritario”

Immagine dal film La terra degli uomini rossi, di Marco Bechis, per gentile concessione del regista Immagine dal film La terra degli uomini rossi, di Marco Bechis, per gentile concessione del regista
Immagine dal film La terra degli uomini rossi, di Marco Bechis, per gentile concessione del regista
Immagine dal film La terra degli uomini rossi, di Marco Bechis, per gentile concessione del regista

Due saggi antropologici di Clastres e Staid stimolano una nuova lettura del ruolo del curatore, con un parallelismo tra questo e la carica di capo all’interno delle società Amerinde

Possiamo capire osservando e studiando queste società senza Stato quanto sia fondamentale tornare a produrre per la comunità e non solo per il salario, come sia importante la gestione collettiva del lavoro, come sia fondamentale non far diventare tutti i prodotti merci, possiamo porre l’accento sul mutuo appoggio e il dono invece che sul denaro e il profitto, ma soprattuto possiamo facilmente comprendere che lavorare trop-pe ore al giorno ci toglie la gioia della vita. Il lavoro nella società occidentale e in tutte le società statali rap-presenta una delle relazioni di potere coercitivo più forte che è servita a costruire lo scheletro della società statale capitalista
(Andrea Staid, Contro la gerarchia e il dominio. Potere, economia e debito nelle società senza Stato, Meltemi Editore, 2018)

La società contro lo Stato è il titolo del saggio elaborato dall’antropologo francese Pierre Clastres, frutto della ricerca etnoantropologica svolta tra il 1963 e il 1974, presso le tribù indiane del Paraguay, del Brasile centrale e gli abitanti dell’Amazzonia venezuelana. Il potere trae la propria origine e giustificazione dalla natura o dalla cultura? Clastres intende chiarire prima di tutto il concetto di potere, in quanto gestione dei rapporti orizzontali e verticali all’interno delle comunità umane. Il potere politico non è una necessità inerente alla na-tura umana, ma è un’esigenza intrinseca alla vita sociale. Il potere non è innato, ma è una costruzione culturale. La nostra natura è quella di essere sia “animali culturali” che “animali relazionali”, perciò, essendo l’uomo un animale biologicamente incompleto, la cultura è la possibilità di adattamento non genetico al mondo e, ancora, l’uomo inventa la cultura perché ha bisogno di relazionarsi con l’altro e questa relazione prevede l’esistenza di un potere. Cosicché il sociale non è pensabile senza il politico. Non è possibile distinguere società senza potere e società con potere, ma è possibile vagliare due modi di concepire il potere: coercitivo e non coercitivo. Il potere coercitivo è il dominio, si realizza nella caratteristica relazione sociale di comando e obbedienza. “Nelle società senza Stato non si è sviluppata un’ideologia articolata sul concetto di superiorità/inferiorità. Sono società che rifiutano lo Stato e il dominio che scelgono consapevolmente di darsi delle norme che allontanino possibilità di degenerazione della società in società gerarchica e del dominio”.

Immagine dal film La terra degli uomini rossi, di Marco Bechis, per gentile concessione del regista
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Nelle culture prese in esame, il rifiuto radicale dell’autorità e la negazione assoluta del potere coercitivo sono frutto di una decisione collettiva. Sono società coscientemente e liberamente indivise ed egualitarie. “Le società indivise lasciando esprimere il proprio essere per la libertà possono sopravvivere solo nel libero esercizio di libere relazioni tra pari. Ogni relazione di altra natura è sostanzialmente impossibile in quanto diventa mortale per la società di uguali. L’uguaglianza vuole solo l’amicizia, l’amicizia si prova solo tra uguali”. Essere coscienti dell’esistenza di queste società contro lo Stato ci permette di mettere in discussione il modello sociale con il quale siamo cresciuti (società occidentale) e che diamo per scontato. Se dovessimo constatare una vocazione politica dell’antropologia culturale sarebbe quella di far luce sulla condizione di un mondo vario, abitato da numerose culture, in cui le vie praticabili sono illimitate. La gestione del potere nella nostra società è solo una declinazione storica. Una diversa concezione e amministrazione del potere è concretamente possibile. Indagare le società altre, permette di scardinare le sicurezze, mettere in discussione, stimolare nuove iniziative sociali. Usufruire della ricerca antropologica come un archivio di pratiche consultabili per la migliore comprensione del presente e per acquisire gli strumenti che ci permettono di cambiarlo.

Andrea Staid, Contro la gerarchia e il dominio. Potere, economia e debito nelle società senza Stato, Meltemi Editore, 2018

Siffatta premessa mi porta a introdurre la mia personale interpretazione del ruolo del curatore, presentando un parallelismo tra il primo e la carica di capo all’interno delle società Amerinde, alla luce di quanto scritto dagli antropologi Clastres nel volume sopracitato e Andrea Staid nel suo libro Contro la gerarchia e il dominio. Potere, economia, debito nelle società senza Stato. All’interno di queste società, caratterizzate da uno spiccato senso della democrazia e gusto dell’uguaglianza, il capo si rivela essere una figura senza autorità e senza potere. Le caratteristiche essenziali del loro leader, condivisibili con la posizione del curatore, sono: essere un paciere, incarnare l’istanza moderatrice del gruppo; essere generoso, poiché avarizia e rispetto non sono compatibili; essere un buon oratore, la sola fonte di parola legittima, e aggiungo, nei confronti del curatore, l’essere un buon ascoltatore, soprattutto nei confronti delle esigenze e delle proposte degli artisti. Il capo amerindo ha un dovere: la parola, “un capo silenzioso non è un capo”. Egli è quindi debitore di messaggi verso la comunità. “L’isolamento della sua parola che, per il fatto stesso di essere pronunciata duramente per non farsi ascoltare, testimonia la sua dolcezza”.

Immagine dal film La terra degli uomini rossi, di Marco Bechis, per gentile concessione del regista
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Nell’obbligo di parola imposto all’esponente traspare tutta la filosofia politica delle società primitive, è la natura di questa parola autorevole che ci indica il luogo reale del potere. Assistiamo alla differente coniugazione del legame indissolubile tra parola e potere: nelle società statali la parola è un diritto, mentre nelle società senza Stato la parola è appunto un dovere. Un debito infinito quello del leader verso la società, che garantisce l’irrealizzabilità che l’uomo di parola diventi uomo di potere; impedire il sorgere di disuguaglianza e desiderio di dominio preserva l’esistenza di relazioni di libertà tra eguali. Si può inoltre sottolineare come, in realtà, i messaggi del capo siano meramente un atto ritualizzato, la parola del capo non è detta per essere ascoltata; il discorso consiste in una celebrazione ripetuta più volte, giornalmente, delle norme di vita tradizionale basata su pace e armonia. “Vuoto è il discorso del capo appunto perché non è discorso di potere: il capo è separato dalla parola, perché separato dal potere. Nella società primitiva, nella società senza Stato, il potere non si trova presso il capo: perciò la sua parola non può essere parola di potere, d’autorità, di comando. Un ordine è proprio ciò che il capo non può impartire, il tipo di pienezza rifiutato alla sua parola”. Tutto ciò proprio perché questa società è il luogo del rifiuto del potere separato, perché essa stessa, non il loro leader, è il luogo reale del potere, consapevoli di come la violenza, agli antipodi della parola, sia l’essenza del potere. Il dovere del curatore è quello di assicurare l’incolumità delle opere, è in debito per l’affidamento delle opere nelle sue mani. Il debito, che viene gestito in entrambi i casi dal gruppo, garantisce l’impossibilità di strutturazione di un possibile potere gerarchico e coercitivo.
Entrambi i poteri sono fondati, non sulla coercizione, ma sul consensus omnium, tale dimostra la fragilità del loro potere: le loro funzioni sono monitorate dall’opinione pubblica, in quanto potere accettato per la sua impotenza, entrambi non sono mai certi che le loro iniziative siano approvate e che le loro direttive vengano eseguite. L’interesse diretto di entrambi è quello di mantenere la pace all’interno della micro realtà in cui operano: il prodursi di una crisi distruggerebbe l’armonia interna. Risolvere ciò richiederebbe l’intervento di un potere che essi non hanno, il malcontento generale suscitato risulterebbe insuperabile e decisivo per il futuro della loro carica. Da ciò comprendiamo che il potere in entrambi i casi è detenuto dalla comunità tutta, indivisa ed egualitaria. Le due cariche indebitate non esprimono altro che la propria dipendenza dal gruppo e l’obbligo a cui sono legate di manifestare continuamente l’innocenza della propria funzione: apparentemente può sembrare che il gruppo abbia bisogno di una figura emergente, in realtà si cela una sorta di ricatto esercitato dalla collettività, che vede il capo amerindo intimorito dalla possibilità di abbandono, estraniazione dal-la tribù, che implicherebbe la morte certa e il curatore ingabbiato nel debito dalla sua firma stampata sui documenti ufficiali.

Immagine dal film La terra degli uomini rossi, di Marco Bechis, per gentile concessione del regista
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Evidente è la natura non autoritaria delle funzioni di entrambi. Essi dispongono unicamente del prestigio attribuitogli dal gruppo, in seguito al riconoscimento della qualità delle sue competenze tecniche. La collettività non permette che il capo superi questo limite tecnico, né che una superiorità tecnica si trasformi in autorità politica. Prestigio non è sinonimo di potere. “Se mi servissi degli ordini o della forza coi miei compagni, essi mi volterebbero le spalle. Preferisco essere amato che temuto da loro”. Sia il capo che il curatore sono prigionieri del proprio desiderio di prestigio e dell’impotenza a realizzarlo, essendo il gruppo la sede del potere effettivo. Sorge spontaneo chiedersi da dove nasca il desiderio di ricoprire tali titoli: non la realizzazione di un desiderio politico, ma l’innocente godimento di una gloria che entrambi si sforzano ad alimentare, ritrovandosi al servizio della collettività, costretti a rispondere a una costante domanda di prodigalità.
Clatres precisa che “è assai probabile che una condizione fondamentale di esistenza della società primitiva consista nella relativa debolezza della sua entità demografica. Le cose non possono funzionare secondo il modello primitivo se non quando la popolazione è poco numerosa”. Da questa constatazione e prendendo, conclusivamente, coscienza che la declinazione del potere è una costruzione culturale e la struttura sociale una scelta, desiderando riconoscere la creatività politica e culturale di popoli e gruppi che vivono senza governo, credendo in modi non autoritari e non coercitivi della gestione del potere, con la fiducia nella cooperazione volontaria e non nella gerarchia discriminante, nasce la mia visione del corpo artisti più curatore come una micro comunità temporanea, in cui il curatore non è un capo autoritario, ma una figura dedita alla mediazione, all’oratoria e al coordinamento; intendendo la collettiva come un’esperienza di resistenza, auto-organizzazione e lotta per la distribuzione egualitaria del potere, allontanandosi dall’egoismo “sociale”, la cui efficienza deriva dalla costruzione trasparente di una struttura sociale orizzontale, in cui il riconoscimento dei ruoli avviene in modo sincero e il loro peso non prevede coercizione, disuguaglianza e nemmeno un potere separato. Il potere, che si definisce in termini relazionali, è il punto nodale nella gestione dello spazio politico, sia per quello gerarchico che non gerarchico, tanto per i contesti macrosociali quanto per quelli microsociali.
L’analisi delle società primitive, svolta dagli antropologi Clastres e Staid, ci permette di comprendere l’eventualità di decostruzione del dominio (ovvero il potere coercitivo) a favore della creazione di un potere diffuso; di stimolare la promozione di una realtà in cui non si è soggiogati da competizione, disparità ed egoismo; infine, di immaginare che la parola capo o curatore descriva una figura che non rivendica un diritto, ma un dovere.

Eleonora Reffo

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