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Anime stremate in corpi stanchi: il Joker di Joaquin Phoenix incontra Egon Schiele

Egon Schiele, Self-Portrait With Eyelid Pulled Down Egon Schiele, Self-Portrait With Eyelid Pulled Down
Egon Schiele, Self-Portrait With Eyelid Pulled Down
Egon Schiele, Self-Portrait With Eyelid Pulled Down

La dimensione corporea diventa spesso il più eloquente mezzo comunicativo che l’uomo possiede. I disegni di Egon Schiele e l’interpretazione attoriale del Joker da parte di Joaquin Phoenix ne sono un differente, ma allo stesso tempo analogo, esempio.

L’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, principalmente da quelle che scaturiscono dalla superficie corporea. Può essere dunque concepito come proiezione mentale della superficie del corpo, che rappresenta oltretutto la superficie dell’apparato mentale.

 

Sigmund Freud

Joaquin Phoenix ha insistito fino all’ultimo per chiamare il film Arthur. Alla fine, forse a ragione, la produzione ha optato per un più conservativo e commercialmente efficiente Joker. La scelta, alla luce dei record stracciati al botteghino, ha sicuramente pagato; ma, artisticamente parlando, la proposta dell’attore si sarebbe rivelata profetica e coerente: il film di Todd Phillips non parla, se non nell’ultima mezz’ora, del Joker, bensì di Arthur Fleck. Sono il suo tormento e la sua spirale discendente a rendere la vicenda così coinvolgente, a impedirgli di scivolare nel cinecomic e a mantenersi concentrato sull’umana decadenza del protagonista, che solo nelle battute finali compie il definitivo passaggio verso il villain che tutti conosciamo. L’attenzione del film è dunque rivolta all’umana dimensione del personaggio. Così, scevra di caricature supereroistiche e fumettistiche esagerazioni, la pellicola si libera crudelmente di ogni suppellettile presentando l’anima esausta, in un corpo esausto, del suo protagonista.

La risata di Arthur (Joaquin Phoenix) nel film Joker

Allo stesso modo, partendo proprio dall’aspetto titolistico, c’è un artista che ha operato in modo analogo e che di anime esauste in corpi esausti ne ha dato diversi esempi. L’artista in questione è Egon Schiele, accanito ritrattista di giovani ragazze e oltre che di se stesso, che è però raramente caduto nella tentazione di nominare esplicitamente le proprie opere. Molto spesso i suoi titoli si esauriscono in un generico Nudo femminile, Ragazza in piedi con abito blu, Autoritratto, Ragazza inginocchiata appoggiata sui gomiti. Questa scelta, di certo utile anche per mantenere l’anonimato delle modelle, ha fatto in modo che, privati della loro individualità, i soggetti sfumassero verso l’universalità. Persi i riferimenti con la loro persona, trasfigurati dal segno nervoso dell’artista, di questi rimane solo la carica emotiva strabordante, che riescono a suggerire tramite un unico potente canale: il loro corpo.

I due casi allora, temporalmente distanti, si ritrovano connessi da questa centrale dimensione corporea. Tanto più interessante perché, proprio come il corpo che la definisce, parla un linguaggio silenzioso che, per essere compreso, necessita di un’adeguata attenzione. In entrambe le opere (considerando lo stile di Schiele raccogliere uniformemente tutta la sua produzione) l’esuberanza espressiva si concentra in modo eloquente nei corpi magri, contorti e dilaniati che riportano in superficie i drammi interiori delle personalità che li ispirano. Sia Schiele che Phoenix distorcono fino al limite le linee corporee dei rispettivi personaggi perché credono che questa sia la via migliore per esprimerne la personalità. Proprio come un poeta ricorre ad immagini irrealistiche per manifestare una personale visione della realtà, così i due hanno costretto le loro diramazioni artistiche in pose intricate, raccolte innaturalmente, forzate a recitare il doloroso copione dell’irrequieta emotività che li attraversa. Come in preda ad una scossa incontrollabile i corpi si alterano all’improvviso, per poi fissarsi assumendo la presenza scenica di una statua sinistra. I paesaggi interni di questi soggetti esondano come ombre scure dalle pelli stanche, prendono possesso dei corpi e li trasformano in carne sofferente.

Prima ancora che con le parole (nel caso di Joker) e che con un approfondimento critico (nel caso di Schiele), l’irruenza fisica esprime inequivocabilmente la trama emotiva dei soggetti in questione e lo fa allacciando lontane ma affascinanti analogie tra i due. Per entrambi la sofferenza non si manifesta tanto tramite elaborate forme verbali, ma piuttosto attraverso caricature ed esagerazioni nelle caratteristiche fisiche o nelle posture corporee. Così gli stati mentali dei soggetti emergono silenziosamente dalla drammaticità dei corpi che li accompagnano: le spalle ricurve a suggerire isolamento, la magrezza a ostentare fragilità, i gesti ripetitivi a sottolineare le manie, l’addome contratto che nasconde rabbia, le scapole abbassate come segno di resa e impotenza, la disarmonia posturale che cela incertezza, la nudità come arrendevolezza. Nell’ossessiva ripetizione di questi tratti Joaquin Phoenix e Schiele hanno sollevato i connotati psicologici delle rispettive creazioni, insinuando nello spettatore un disagio meno immediato ma, alla lunga, molto più perturbante.

Per Schiele la rappresentazione realistica ma non mimetica della realtà era propedeutica alla poetica espressionista: costringere le sue figure in posizioni scomode e improbabili suggerisce immediatamente una chiave di lettura da ricercare lontano dalla mera dimensione ritrattistica, pur senza fornire chiare indicazioni all’osservatore. La stessa disagiante perplessità la si può percepire quando Arthur, seminudo, svuota il frigorifero e ci si immerge. Nell’intermittente luce pallida dell’elettrodomestico assistiamo ad una sorta di annullamento dell’uomo, che si rannicchia fino a scomparire in un estremo atto che, più ad una catarsi, lo avvicina all’oblio. Sempre Arthur viene molto spesso ripreso da dietro nel corso del film, sia per enfatizzarne l’andatura sghemba, sia per evidenziare le spalle ricurve e cadenti, stanche e disilluse, trasposizione corporea dell’isolamento e delle violenze che quotidianamente deve affrontare. Anche nella sicurezza di casa sua, Arthur si trova spesso a confrontarsi con il proprio corpo deperito, a distenderlo in cerca di sollievo, di slancio, di speranza; ma poi si richiude nel pallore che ne tratteggia la spina dorsale, portando in superficie i limiti di un animo incapace di sfogare le proprie frustrazioni.

I dipinti di Egon Schiele a confronto con Joaquin Phoenix in alcune scene di Joker
I dipinti di Egon Schiele a confronto con Joaquin Phoenix in alcune scene di Joker

Queste tuttavia trovano il modo di esprimersi attraverso l’iconica risata, isterico sfogo con cui tutti identifichiamo il Joker e che assume numerose e sinistre sfumature. Un’analoga potenza rappresentativa si lega alle mani di Schiele, che lui sottopone ad un’alterazione ancora più profonda e innaturale di quanto non faccia con il resto del corpo delle sue figure. Le allunga, le rende nodose, le carica: portandole in primo piano intende rivendicare la sua qualità di artista, di cui le mani sono strumento principale, ma allo stesso tempo le deturpa, le intirizzisce, le contorce come accompagnasse al talento creativo un tormento altrettanto dilagante. Così la follia del Joker è racchiusa in quella risata dall’effetto inquietante, con cui Arthur sperava però di suscitare ben altre reazioni: il suo sogno era infatti quello di diventare un comico (mestiere dove, tra l’altro, l’aspetto della mimica e dei gesti assume un ruolo centrale). Per questo il suo volto è truccato di bianco con gli occhi, già discendenti in segno di tristezza, ulteriormente spinti verso il basso dal trucco blu. Nel trucco risiede una malinconica poetica che porta le ragazze che lo utilizzano a voler sembrare adulte e allo stesso tempo gli adulti a voler tornare bambini: in generale, vi è il tentativo di sembrare qualcun altro. Così anche le ragazze ritratte da Schiele, spesso, riportano i confusi risultati di un make-up. Giovani e innocenti, queste guadagnano contemporaneamente una maliziosità impropria (e per questo disturbante) e allo stesso tempo vedono paradossalmente aumentato il loro candore, violato ad un elemento che non li appartiene. Anche negli autoritratti, talvolta, l’artista si raffigura come fosse truccato, pieno di colori in viso, forse per nascondersi, forse per mostrarsi veramente.

Il ventre iper-contratto di Arthur Fleck nel film Joker
Il ventre iper-contratto di Arthur Fleck nel film Joker

Una perversa forma di immedesimazione e dissociazione ci attrae dunque alle opere di Schiele, perse su uno sfondo neutro e per questo adatte a ritrovarsi nei nostri sogni confusi. Luoghi intimi ma ugualmente sconosciuti, dove movimenti incontrollabili sono incessantemente in atto. Il corpo, anche involontariamente, si fa specchio e superficie dove queste mutazioni si manifestano. Lo vediamo nei balli irrazionali a cui Arthur Fleck si lascia andare, per esempio subito dopo i primi omicidi o sulla scalinata prima della trasmissione televisiva, e nell’effetto catartico o esaltante che hanno su di lui. Il corpo può, e inevitabilmente deve, farsi carico dell’espressione di ciò che di interno non può essere espresso a parole.

 

Egon Schiele, Kneeling Female Nude (1920)
Egon Schiele, Kneeling Female Nude (1920)

 

L'evidente magrezza, le spalle ricurve e il corpo raccolto di Arthur Fleck
L’evidente magrezza, le spalle ricurve e il corpo raccolto di Arthur Fleck

 

Egon Schiele, Self Portrait With Hands On Chest
Egon Schiele, Self Portrait With Hands On Chest

 

Arthur Fleck entra nel frigorifero annichilendo il proprio corpo e cercando di lenire le proprie sofferenze interiori
Arthur Fleck entra nel frigorifero annichilendo il proprio corpo e cercando di lenire le proprie sofferenze interiori

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