Tra Milano e Torino: Monica Bonvicini (Venezia, 1965) è tornata in Italia con due mostre Unrequited Love alla Galleria Raffaella Cortese e As Walls Keep Shifting alle OGR oltre ad essere presente al Museo del Novecento del capoluogo lombardo con l’opera 15 Steps To The Virgin. L’abbiamo incontrata per farci raccontare i suoi progetti e la sua visione radicale e indagatrice.
Nel recente periodo sei stata molto presente con diversi progetti tra Milano e Torino. Mi riferisco alla tua importante mostra Unrequited Love alla Galleria Raffaella Cortese, all’esposizione As Walls Keep Shifting alle OGR nonché all’installazione 15 Steps To The Virgin al Museo Novecento. Vorrei sapere come sono nati i due progetti espositivi, se c’è un collegamento oppure se si sono sviluppati in maniera separata e come hai lavorato alla loro realizzazione.
Tutti i lavori in un modo o nell’altro si relazionano tra di loro. Il lavoro che unisce tutti i tre spazi della Galleria Raffaella Cortese è Marlboro Man (2019), la grande seriografia su alluminio che ritrae un cow boy, più precisamente quello della pubblicità della Marlboro da cui ho eliminato scritte e colori. Utilizzai la stessa pubblicità come riferimento per il lavoro finale alla scuola d’arte di Berlino nel 1993, quando realizzai un’istallazione con 4 cartelloni pubblicitari della Marlboro e due cabine di traduzione simultanea. Alcuni collage di quell’epoca sono ora nella collezione del Moma a NYC. In galleria sono esposti anche gli ultimi disegni in bianco e nero della serie Hurricanes and Other Catastrophes (iniziata nel 2006) sul tema del Capitalocene, in relazione con la proprietà privata delle Italian Homes (2019). Questa volta a Milano le catastrofi sono esposte insieme a due citazioni disegnate su carta, di Audre Lorde a Eleanor Roosevelt, che investigano la potenza del sentimento di rabbia, motivo molto importante nella scena socio-politica contemporanea. Le sculture di luce sono anche un tema ricorrente, dalle scritte Not For You (2006), Built For Crime (2006), Kleine LIchtkanone (2009) e Ligt me Black (2009) fino ai due lavori al LED prodotti quest’anno: Bent on Going in mostra alla Galleria Raffaella Cortese e White Out alle OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino.
Mi piacerebbe che mi parlassi in maniera più approfondita della serie fotografica Italian Homes e delle tue ricerche in merito a questo particolare tipo di unità abitativa. L’effetto visivo di queste opere sia sviluppate come carta da parati alla Galleria Raffaella Cortese che come foto alle OGR è molto piacevole, però in entrambi i casi questi lavori collocati all’interno del contesto espositivo sviluppano un senso di angoscia, disagio e irrequietezza. In un caso questo disturbo è dato dalle opere sue carta come Places of ID (Three People at the…), Pin Up Girl e Vitruvius nell’altro oltre per la ricostruzione dello scheletro di una di quelle villette fotografate in dimensioni 1:1 trovavo particolarmente inquietante la canzone di Crosby, Still & Nash Our House che periodicamente partiva e si interrompeva.
Non trovo le fotografie delle villette bifamiliari né piacevoli né angosciose. Sono ritratti di abitazioni semplici, scattati in Lombardia nella pianura padana. Queste villette riconoscibilmente di provincia si trovano quasi ovunque, in Francia, Svizzera, in Inghilterra, in Grecia… ho iniziato più di tre anni fa a concentrarmi su una zona in particolare e a scegliere coscientemente quali villette, in quali strade, durante quale stagione. Alla fine degli anni Novanta – con lavori come la video installazione Hausfrau Swinging (1995) o i collage EternMale (2000) – il tema della casa e del domestico, legato a una lettura di genere sicuramente di matrice femminista, è stato fondamentale. Ho fotografato molte case in costruzione, quando ero ancora una studentessa, a Los Angeles, in Egitto, a New Orleans, in Inghilterra – per esempio il complesso di Baker Wall a New Castle. Per molti anni ho provato un senso quasi di alienazione, molto simile a quello descritto da Jack Kerouac nel libro On the Road (1957), rispetto a tutto quello che è domestico. La serie fotografica Italian Homes è il ritratto di un’estetica in particolare, quella che riflette gusti nazionali, sociali e politici del luogo. Nell’istallazione alle OGR As Walls Keep Shifting ho lavorato alla sound track di una canzone che non sentivo e a cui non pensavo da più di 30 anni, ma per la mostra mi è sembrata perfetta. Our House è uno di quei pezzi musicali facili, che ti rimangono nell’orecchio. Nash l’ha scritta per Joni Mitchell in una giornata uggiosa a Los Angeles, tornando a casa nel Laurel Canyon, nel 1970. E’ il periodo in cui la maggior parte delle case fotografate sono state costruite… la sound track ripete alcune parti della canzone, fra cui l’inizio “I’ll light the fire / You put the flowers in the vase that you bought today…” che chiaramente mette in discussione l’abitare in completa armonia. Il quieto vivere domestico è qualcosa che può esistere forse solo per il tempo di una canzone, ma che tutte le facciate delle case in contemporanea suggeriscono e negano allo stesso tempo.
Per la mostra As Walls Keep Shifting alle OGR hai sviluppato un progetto che ha incluso la costruzione dello scheletro, come detto in precedenza, di mezza villetta bifamigliare in scala 1:1. Gli inquilini di questa abitazione sono le tue stesse opere e una serie di fogli staccabili con delle frasi scritte sopra. Che relazioni intercorrono tra tutta queste serie di opere messe in relazioni una con l’altra in un’ambiente così specifico e particolare?
La scultura-casa in abete non è abitata. Ho voluto un volume che rendesse fisicamente l’dea della grandezza e in contemporanea del poco spazio tipico di queste case e l’ho voluta in legno, così come si costruiscono le case in California. È quasi pronta per l’attacco elettrico e sanitario, per le pareti in cartongesso e tutte le sovrastrutture, e la scultura è effettivamente un ibrido di stili. È possibile entrare nel garage, e da li osservare per esempio lo spazio della cucina o del salotto dove il giorno dell’apertura c’era una performance. Nonostante si sia all’interno non si è più vicini né più distanti da chi osserva la performance da fuori. Le citazioni all’esterno della scultura sono prese da un libro che ho amato molto quest’anno: The Collected Stories di Diane Williams (2018). Williams è un’autrice americana di brevi racconti, alcuni solo di mezza pagina, in cui la realtà si confonde con l’immaginazione, maltrattando in maniera virtuosa la lingua americana. Molti dei suoi racconti sembrano soliloqui, sospesi tra ricordo, finzione e desiderio. Ho scelto alcune citazioni che in maniera frammentaria parlano di luoghi, di dentro e fuori, di intimità e di un corpo che esiste solo nel linguaggio.
Molti dei tuoi nuovi lavori fanno parte di una ricerca che porti avanti da diverso tempo. Colpisce notare come temi che tu tratti da tempo siano ora al centro del dibattito quotidiano e come sia cambiata la loro percezione nel recente passato. Mi riferisco ai dibattiti sull’identità di genere, sul capitalismo o meglio il neo-liberismo, e in qualche modo anche la questioni migratorie, qui penso in particolare all’opera esposta alla Galleria Raffaella Cortese I Cannot Hide My Anger, o quelle climatiche, invece qui mi ricollego alla serie Hurricanes and Other Catastrophes. Tu hai percepito un cambio di attitudine verso queste tematiche o semplicemente le hai fatte emergere prima e con un altro punto di vista rispetto a quello a cui stiamo assistendo ora?
Si parla già da molto di Antropocene e di Capitalocene, ora come mai prima la fine dell’Olocene è presente e il cambiamento climatico urgente e visibile a tutti. La distruzione della natura attraverso le attività umane, la loro organizzazione attraverso un sistema politico ed economico è qualcosa che mi ha sempre interessato. Certamente la visita nel New Orleans, in preparazione alla prima New Orleans Biennale, è stata per me un motivo importante per vedere di persona, per interessarmi e approfondire come certe catastrofi naturali avrebbero potuto essere meno gravi se ci fosse stato un impegno politico diverso. Ho iniziato la serie Hurricanes and Other Catastrophes più di 10 anni fa, sicuramente in un periodo in cui non si parlava come ora del pericolo e dello scenario apocalittico che ci troviamo davanti oggi. I disegni in un certo senso continuano una tradizione classica pittorica sul paesaggio, presentando però una distruzione di quello che è il costruire in tanti sensi: quello architettonico ma anche quello legato a un tipo di civiltà basata sul fondamento della famiglia, della proprietà privata e del turbo capitalismo.
La questione del genere, che in maniera diretta ho affrontato con l’istallazione Wallfuckin’ (1995), è anch’essa un tema che molto fortemente è stato discusso, su cui si è scritto e lavorato negli anni 70. Certamente aver studiato a Cal Arts, la scuola in cui la Women House ha avuto inizio con il primo Feminist Art Program non mi ha lasciata indifferente.
Penso spesso alla citazione di Lenin che invita a essere più radicali della realtà. È già tutto davanti a noi. Si tratta di immergersi dentro e di scegliere di operare in maniera attiva rispetto a quello che ci sta intorno.