Reportage dalla Triennale d’Architettura di Lisbona 2019.
L’architettura è una disciplina affascinante, fatta di estetica, matematica, fisica, filosofia e umanesimo, quando affrontata con competenza e coerenza.
Una disciplina che accompagna e guida l’evoluzione della società in senso politico, etico, artistico, così come porta un contributo determinante nell’affrontare sfide complesse che le condizioni geofisiche, o l’inavvedutezza dell’umanità stessa, pongono. Sébastien Marot, Mariabruna Fabrizi e Fosco Lucarelli riflettono sull’importanza sociale dell’architettura. La Triennale 2019 pone con forza l’accento sulla gravissima situazione ambientale che il pianeta sta vivendo e che potrebbe porre a rischio la sopravvivenza dell’umanità stessa. Curando Agriculture and Architecture, (visitabile al CCB/Garagem fino al 16 febbraio 2020) Sébastien Marot ha inteso dare voce alle tante positive esperienze dell’incontro fra queste due discipline, e sul loro crescente divorzio dalla rivoluzione industriale. Una mostra “enciclopedica” con un’ampia prospettiva storica, focalizzata sulle varie pratiche di gestione e sfruttamento del territorio, inquadrate però nell’attuale emergenza climatica, energetica e ambientale, e con l’obiettivo di ripensare e gestire in maniera ottimale il territorio.
L’agro-ecologia e la “permacultura” (quest’ultimo, un concetto recentemente sviluppato da David Holmgren) hanno sviluppato concetti e strategie utili per giungere a una tecnologia post-industriale basata su un avveduto utilizzo di risorse e di materiali. È però auspicabile che queste esperienze vengano recepite anche dalle classi politiche, affinché siano varati appositi e decisi programmi di sostegno alla buona architettura, da intendersi non soltanto come disciplina edificatoria, ma nel senso più ampio e umanistico dell’organizzazione funzionale e armonica del territorio.
Marot ha sintetizzato nel suo percorso l’evoluzione dall’architettura urbana all’agro-architettura e la relazione fra città e campagna. Il celebre affresco del Buon Governo di Lorenzetti è il riferimento ideale a questo delicato dialogo, che va appunto al di là delle questioni tecniche. Le quali restano comunque basilari, sintetizzate nei tre principi vitruviani ai quali si atteneva la villa romana, primo esempio di architettura agricola moderna: solidità, utilità, bellezza. Una struttura che era sì simbolo di potere, ma anche funzionale nel gestire e amministrare territorio agricolo e la relativa comunità, poi evoluta nel sistema del castello feudale.
L’economia curtense era necessariamente locale, considerando la limitatezza degli scambi esterni a causa delle difficoltà causate dalla fluidità politica dell’Europa di allora. Soltanto dopo il Mille, con la rinascita delle città e la ripresa dei commerci su larga scala, anche l’agricoltura poté godere di mercati più ampi e redditizi. Ma fu soltanto con la rivoluzione industriale che l’agricoltura conobbe uno sviluppo produttivo intenso, con la nascita della cosiddetta industrial farming definitivamente affermatasi nel attorno agli anni Venti del Novecento; al di là dell’aspetto ambientale, con l’uso sempre più massiccio di pesticidi, il paesaggio agricolo si è modificato passando dal villaggio allo stabilimento produttivo, almeno nel mondo occidentale.
Fra i primi ad avvertire la pericolosità di una tale trasformazione ci fu Le Corbusier, che sul finire degli anni Trenta immaginò la Radiant Farm, sorta di città ideale agricola, organizzata su base cooperativistica. Un intervento di natura paesistica e politica, che ebbe seguito negli anni Settanta, quando si cominciò a parlare di coscienza ambientale, localismo, “chilometro zero”, grazie anche al movimento verde promosso in India da Vandana Shiva, e alla voce di autori come Donella e Dennis Meadows, che già all’epoca lanciavano allarmi sui limiti della crescita e l’esaurimento delle risorse naturali.
Poiché l’impatto ambientale passa anche dall’organizzazione dell’agricoltura, la gestione dello spazio agricolo è ovviamente strategica, ma in ottica di emergenza climatica l’architettura può ricoprire un ruolo importante nell’allargare il concetto di “spazio verde” suggerendo soluzioni per un’integrazione più profonda con la città. Alcuni scenari possibili, immaginano lo spazio agricolo come componente integrale di un’espansione urbana a bassa intensità; oppure, come già sperimentato su numerosi edifici, soprattutto negli USA e in Nord Europa, lo spazio agricolo lo si ricava su tetti e terrazze degli edifici urbani.
Sviluppi che però, per essere riprodotti su larga scala necessitano anche di un convinto supporto da parte del mondo politico, supporto che purtroppo, in particolare in Italia, molto spesso latita.
L’architettura è anche filosofia: Inner Space, tenutasi al Museu Nacional de Arte Contemporânea a cura di Mariabruna Fabrizi e Fosco Lucarelli, è stata pensata come un progetto di ricerca a metà fra arte, filosofia, sociologia e architettura, che centra la saldatura fra le discipline. Organizzare lo spazio, sia quello abitativo sia quello geografico, sia quello interiore: la cartografia diventa architettura ideale della rappresentazione del territorio; i monumenti segnano il territorio lasciandovi tracce di persone o eventi legati alla storia, in questo modo contribuendo alla costruzione di un’identità collettiva. Ma è la mente dell’architetto il nucleo da cui nascerà l’organizzazione dello spazio, che si traduce in una forma originale di esperienza che prima non esisteva.
L’immaginazione è quindi una facoltà mentale strettamente connessa alla razionalità, e la relazione dialettica tra i due campi è stata definita e teorizzata da numerosi filosofi e scienziati nel corso dei secoli. Costruire l’immaginazione è architettura dell’anima, significa gettare le basi per il dialogo, l’incontro, il confronto; significa estrapolare significati da tutto ciò che vediamo e tradurli in edifici, ma anche in strumenti di conoscenza e di riflessione, in questo rafforzando il libero pensiero, la consapevolezza di se stessi e dei propri limiti. Perché è lo spazio interiore, appunto, quello più difficile da misurare. E l’architettura, nel suo senso più alto, è una disciplina che, organizzando lo spazio urbano e abitativo con armonia, fornisce una sorta di “specchio” sulla cui ideale superficie è possibile riportare i canoni dello sviluppo civile. Accadeva nelle città ideali del Rinascimento, è accaduto ancora grazie a illuminati progetti di sviluppo urbano come quelli della Berlino degli anni Cinquanta, e continua ad accadere grazie al lavoro, a volte poco noto, di tanti architetti-umanisti che credono profondamente nel loro lavoro.