Print Friendly and PDF

La storia del quadro di Domenico Gnoli mai ritirato

Domenico Gnoli, Colletto Rosso (1969). Collezione Privata, Roma. Courtesy Peggy Guggenheim Collection e SIAE. Domenico Gnoli, Colletto Rosso (1969). Collezione Privata, Roma. Courtesy Peggy Guggenheim Collection e SIAE.
Domenico Gnoli, L’inverno (Couple au lit) 1967. Collezione Privata. Courtesy Luxembourg & Dayan e SIAE.

Gli Amarcort, nome suggeritomi da Cristiano Seganfreddo, sono degli Amarcord più brevi e veloci. Talvolta solo squarci di ricordi. Ma presto arriveranno i veri Amarcord, lunghi e noiosi. O forse no.

Questa immagine di un’opera di Domenico Gnoli postata dall’amico Franco Troiani di Spoleto, mi ha riportato ai primi anni ’60 quando per una estate, tutti i giorni, ma proprio tutti, mi incontravo con Gnoli, con studio a Spoleto e quell’anno scenografo al Festival dei due Mondi, fondato da poco da Giancarlo Menotti. Quei miei anni erano bellissimi, pur vissuti nella povertà che non mi affliggeva né mi frustrava, perché non avevamo bisogno di nulla. A casa mia, mio padre, uomo dolcissimo e onestissimo, lavorava anche saltuariamente e se necessario anche di notte; ma sul retro della nostra casa modesta, c’erano polli e galline con uova fresche ogni mattina, conigli, che all’occorrenza mio padre uccideva con un pugno dietro la testa e poi lo spellava con facilità irrisoria e come un dovere ineluttabile del pater familias, che doveva provvedere alla sopravvivenza di sua moglie e dei suoi figli e nel piccolo orto c’erano sempre verdure di stagione.

Ricordo il canto gioioso di mia madre e delle sue compagne mentre erano al lavatoio comunale, poche pietre lisce appoggiate sulla riva del fiume del Clitunno con acque freddissime e limpidissime, distante in linea d’aria trecento metri e dove quasi ogni giorno mia madre si recava per il bucato di famiglia. D’estate e d’inverno, con l’acqua gelata che ti intorpidiva le mani, mentre io spesso prendevo nel fiume i gamberi e in un fiumiciattolo stagnante accanto le rane. Ancora oggi, amici che ci hanno frequentato nel passato mi ricordano come era buono il coniglio cucinato da mia madre (e che Lucio Fontana, quando veniva da noi, adorava).

Ogni anno e anche quest’anno, ad Art Basel, Joshua e Yoel, due noti collezionisti israeliani mi ricordavano l’impareggiabile coniglio di mia madre, merito suo ma, mi fa notare giustamente l’amico Gaetano Grillo, anche del coniglio, allevato amorevolmente da mio padre che poi, sempre amorevolmente uccideva e spellava. E a questi ricordi oggi mi commuovo perché quando accadevano queste cose, io non le apprezzavo nel giusto modo. Per me era la normalità quotidiana, nel bene e nel male. Anche perché tutto il piccolo paese si comportava così e si aiutava quando poteva. In quel povero paese, dei miei sogni di oggi, non esisteva solitudine né indigenza. Tutti per uno, uno per tutti. Quante volte ho visto mia madre prestare o prendere in prestito uova e polli. Dicevo che malgrado la mia povertà vissuta con una felicità poi mai più assaporata, erano anni bellissimi e con Gnoli facevamo lunghe passeggiate a Spoleto e persino tra i boschi di Monteluco, dove lui o sua madre, ceramista, possedevano una bella casa.

Gnoli era nato a Roma, ma è vissuto molto in Umbria perché sua nonna era umbra e suo padre Umberto, era stato Sovrintendente alle Belle Arti a Perugia, grande conoscitore dei duecentisti umbri e autore di un fondamentale Pittori e Miniatori dell’Umbria. Gioia e delizia della mia prima giovinezza e mia guida, per scoprire in bicicletta, opere straordinarie di primitivi della mia regione, talvolta situati in paesi e chiese di campagna e di montagna, luoghi a volte anche impervi e a me sconosciuti. E oggi, in molti casi scomparsi.

Domenico Gnoli, Colletto Rosso (1969). Collezione Privata, Roma. Courtesy Peggy Guggenheim Collection e SIAE.

Domenico mi raccontava che a dieci anni lui disegnava benissimo e sapeva già che avrebbe fatto il pittore, perché con una madre francese ceramista e un padre che viveva d’arte e di poesia e una casa frequentata solo da artisti e intellettuali, (anche suo nonno e le due sorelle del nonno erano poeti di successo), pensava che nel mondo non esistessero altre professioni oltre a quelle di pittore e di poeta. Difatti sin da giovanissimo iniziò a frequentare amici del padre, che gli insegnarono le tecniche pittoriche e di incisione. A 17 anni, ebbe la sua prima mostra alla galleria La Cassapanca di Roma con buon successo (la sua era una famiglia con grandi relazioni intellettuali e la mostra non passò sotto silenzio) e in quegli anni ebbe anche alcune esperienze di attore di teatro e di cinema (La Fiammata di Blasetti, nella parte del giovane ufficiale francese Gérard Derrieux ma assieme ai miti di allora, Eleonora Rossi Drago, Amedeo Nazzari e Delia Scala). Lui mi raccontò che queste esperienze lo convinsero che aveva ragione suo padre che riteneva che l’unica cosa per cui fosse lecito vivere fosse la pittura.

Ma insoddisfatto della propria vita tra Roma e Spoleto, (mi diceva che a venti anni si sentiva un principe triste che viveva in un regno dove i rumori, la musica e le grida erano banditi) iniziò a viaggiare, anche con la complicità dello scultore austriaco Ben Jakober, che lo introdusse in alcune gallerie francesi. Nel frattempo si sposò con la pittrice franco coreana Yannick Vu con cui viaggiò molto e con cui si recò per alcuni mesi a New York, in cerca di una galleria, perché una volta uscito di casa e morto il padre, si trovò in difficoltà economiche. Visse comunque bene facendo l’illustratore di riviste famose come Vogue, Fortune, Glamour, Playboy. A New York incontra il grande fotografo Cecil Beaton che ha immortalato Katherine Hepburn, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe. Nel suo studio a Spoleto mi raccontò che fu molto colpito dai tagli fotografici di Cecil Beaton e che influenzarono molto il suo lavoro, fatto di tagli dei corpi, particolari ingigantiti in tele di grandi dimensioni e con una tecnica inedita, fatta di acrilico e sabbia. Fu più volte invitato al Premio Marzotto, allora manifestazione di respiro internazionale e certamente la più importante in Italia ed iniziò ad esporre con ottimi riscontri da André Schoeller a Parigi.

Il suo studio di Spoleto era gremito di tele, piccole medie grandi. E poi disegni, incisioni, acqueforti, che lui amava molto. Parlare con Domenico Gnoli era molto piacevole per me, lui era anche un ottimo conoscitore della poesia, pane per i miei denti allora. Questo interesse comune (i suoi zii erano poeti abbastanza famosi negli anni trenta e anche suo padre era un poeta non dilettante) contribuì a far nascere la nostra amicizia e io quasi ogni giorno, da Trevi con il mio Mosquito, un motore applicato alla bicicletta, mi recavo durante il Festival dei due Mondi, la sola attrazione culturale in Umbria di quegli anni, dal mio amico Domenico Gnoli.

Ci recitavamo a memoria alcuni versi e dovevamo riconoscere l’autore. Figurati, io fresco di Lascia o Raddoppia dove avevo partecipato come esperto della poesia italiana contemporanea, me lo divoravo. E questo affascinava ed esasperava Domenico Gnoli che amava conoscere da me poesie e poeti a cui lui non era ancora arrivato. E io giù con Ungaretti, Saba, Quasimodo, Cardarelli, Dino Campana ma anche Pound e T.S Eliot e lui che mi rispondeva con la signorina Felicita di Gozzano e con Sergio Corazzini, la grande promessa della poesia che morì di tisi a 21 anni e che aveva studiato al Collegio Nazionale di Spoleto. E di cui io conoscevo a memoria tutta la non prolifica produzione. Insomma ogni volta che ci incontravamo era una gentile tenzone sulla poesia e talvolta sull’arte, che però entrambi conoscevamo poco, o almeno non come negli anni successivi. Lui conosceva molto bene l’arte classica io un po’ meglio di lui quella contemporanea e ci scambiavamo idee e opinioni. Lui, anche come eredità culturale della famiglia, era più interessato al Rinascimento e al Seicento che non all’arte contemporanea. E si riteneva un artista classico.

Ricordo, come fosse ora e con grande rammarico di oggi, che Gnoli mi chiese di scegliermi come regalo una sua opera nello studio. Io adoravo questo giovane quasi conterraneo che amava la poesia come me, ottimo conoscitore dei grandi scrittori russi e francesi, ma in quel momento io non ero affascinato dalle sue opere così realiste da apparirmi accademiche.

Domenico Gnoli accanto all’opera “Black Hair” (1969).

Il quadro di Domenico Gnoli mai ritirato

O appunto, come le definiva lui, classiche. Io che stavo scoprendo gli espressionisti astratti americani e la loro furia devastatrice, con la mia supponenza mi reputavo intellettualmente più avanzato di quel giovane pinto e lindo che stava realizzando scenografie per il Festival dei due Mondi. Lo ringraziai e gli dissi che accettavo volentieri l’omaggio che però avrei scelto e ritirato in altra occasione poiché in quel momento (e per lungo tempo) mi muovevo con la mia bici motorizzata. Ci rivedemmo tutti i giorni durante quel Festival ma io ero sempre con il mio Mosquito e non avevo alcuna possibilità di trasportare un quadro (lo stesso mi accadde con Pino Pascali che voleva regalarmi un suo “metro cubo di terra” ma io non potevo trasportarlo in cinquecento e così lo persi. Avrei avuto bisogno di un camion che non potevo permettermi).

Terminò il Festival e dopo alcuni giorni Gnoli si trasferì a Palma di Maiorca e successivamente con Yannick Vu, a New York. Come accade sempre da giovani ci sembrava di essere legati da amicizia eterna ma poi ci si perdeva di vista solo dopo pochi giorni. E così fu. A causa delle mie e sue peregrinazioni (e forse interessi e orizzonti diversi) non incontrai più Domenico Gnoli. Qualche anno dopo, a Roma, la storica direttrice della galleria Marlborough, con cui credo Gnoli lavorasse, Carla Panicali, mi disse che aveva appena ricevuto un telegramma da Frank Lloyd, il proprietario della Marlborough in cui le annunciava che Domenico Gnoli era morto a New York. Aveva 36 anni. E se non vado errato ora è sepolto nel cimitero di Monteluco di Spoleto. Ma potrei confondermi con Sergio Corazzini.

Il successo internazionale di Domenico Gnoli è cresciuto lentamente ma costantemente. E molto lo si deve alla madre, Annie de Garrou, che sopravvisse al figlio per molti anni e alla sua moglie Yannick Vu, che con amore e determinazione hanno raccolto e riunito opere e documenti che altrimenti sarebbero stati dispersi e proposto mostre di Gnoli a gallerie e musei di tutto il mondo. Con gli esiti che tutti conosciamo.

 

Per scrivere a Giancarlo Politi:
giancarlo@flashartonline.com

 

Commenta con Facebook