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Broken, su Netflix una docuserie sulle insidie del consumo

Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher Collins

Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher Collins

Broken, su Netflix una docuserie sulle insidie del consumo e i suoi meccanismi nascosti

Se è vero che lo stile di consumo rappresenti uno stile di vita, dovremmo davvero volgere lo sguardo a come ci orientiamo nell’accumulo quotidiano e che sensazione di scarto, inutilità, deperimento, conferiamo ai beni che scambiamo e utilizziamo.
Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher Collins e Chris Cechin – De La Rosa, punta proprio su questo tipo di analisi degli odierni fenomeni di massa digitale attraverso 4 episodi della durata di un’ora circa ciascuno che indagano l’industria delle sigarette elettroniche, la truffa del riciclaggio della plastica, il consumo di make-up contraffatto e di arredamento low-cost.

Il filo conduttore della narrazione risiede nel tracciare cenni storici di formazione del fenomeno in questione, comparare diverse legislazioni in diversi paesi, produrre interviste focalizzate a vari opinion-leader ed esperti, raccogliere testimonianze di chi ha praticato in prima persona determinati stili di consumo e di chi ne è stato vittima, o suggerimenti di cittadinanza consapevole come riduzione del danno.

L’episodio dedicato al mercato del make-up contraffatto è metaforico di un modello di business della bellezza psicofisica con varie venature socio-politiche molto interessanti. Il make-up, infatti, si pone con rinnovata carica propulsiva sul fronte del benessere fast: quali sono le nuove motivazioni al suo utilizzo con l’avvento dei social? Quali le differenze con le classiche forme di promozione? Queste preliminari domande non suonano affatto banali dato che – come già dimostrato rispetto alla fast-fashion all’interno di un altro documentario disponibile su NetflixThe True Cost” (2015) – l’approccio usa-e-getta alla decorazione e cura di sé ha dato accesso a molti/e a quantità considerevoli di oggetti e dispositivi di bellezza attraverso la percezione di poter variare la propria immagine come si voleva e di possedere, appunto, tanto.Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher CollinsBroken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher Collins

Tutto ciò mentre si perdeva progressivamente consapevolezza di non avere accesso a diritti costituzionalmente garantiti quali il diritto all’istruzione o alla casa (si pensi alla crisi finanziaria dal 2008 in poi).
Sicuramente l’ingresso sulla scena globale di influencer e beauty-community ha rappresentato una rivoluzione nell’industria cosmetica: non solo più i grandi marchi (Lancome, Chanel, Dior, Armani, Estée Lauder, etc …) potevano dividersi questa fetta di mercato, ma brand indipendenti (Jeffree Starr, Kylie Jenner, Huda Beauty, Anastasia Beverly Hills, Colourpop, Mulac, Nabla, etc …) nati molto spesso proprio dai social media hanno iniziato a sfidare i primi per l’attenzione maggiore agli ingredienti dei loro prodotti e per le politiche contro la sperimentazione sugli animali (certificazioni cruelty-free, vegan, organic, etc …).

La figura dell’influencer non corrisponde a una semplice trasposizione contemporanea del modo di fare pubblicità, bensì a un’operazione di risignificazione della sensorialità anche in chiave di ‘pelle politica’. A questo proposito, la beauty-community italiana presenta numerosi esempi di diversity-management o di introduzione di nuove estetiche. Dalle rubriche sulla ‘diversity’ di Grace on your Dash specialmente focalizzato sull’inclusività nel make-up rispetto a carnagioni non caucasiche, al ‘born beautiful’ di Toniamakeup sull’accettazione di se stessi/e, ai video sulla valorizzazione delle imperfezioni fisiognomiche di ReginaInNeverland, fino alle pratiche di anti-genderizzazione del make-up che ha visto crescere numerosi make-up artists e lovers maschi anche in Italia (Jeffree Starr, James Charles, Giovanni Zummo, Alessandro Orati, etc …).

Questi video non sono semplicemente dei ‘tutorial’ ma affermano un discorso sulla vanità, l’effimero, l’autostima, la creatività, la comunicabilità fra aspetto esteriore e interiore, che è tipico di Internet e non poteva che nascere in un ambiente in cui le dinamiche fra pubblico e attore sono molto più dirette e partecipate. Non scompare l’asimmetria di potere tra chi ha seguaci e chi è seguace ma mentre con la TV, per esempio, il tipo di fruizione di contenuti mediatici non poteva che avvenire in determinati spazi domestici, oggi la logistica non è più una questione per la fruizione di contenuti sul web. E la sensorialità uditiva e visiva tocca, quale paradigma di tutto il web, corde molto personali ma che si possono esprimere in pubblico (si veda a questo riguardo anche l’esperienza peculiare dell’ASMR, autonomous sensory meridian response).

Il primo episodio di ‘Broken’ racconta come la Cina sia il maggior paese produttore al mondo, anche di trucchi contraffatti. I cosmetici fake innescano buoni guadagni perché i costi di produzione sono notevolmente bassi e la domanda è crescente. Il documentario sviscera le implicazioni della contraffazione di indumenti o di trucchi per il consumatore finale. Per esempio, la scoperta di trucchi illegali necessita di analisi chimiche proprio in virtù del fatto che si sono verificati sempre più problemi dermatologici legati alla presenza di derivati del piombo o altre sostanze nocive presenti nei cosmetici: dermatite da contatto, forti mal di testa collegati all’interazione fra il metallo e il cervello, orzaiolo, etc.Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher CollinsDiverse legislazioni governano ciò che può essere legalmente immesso sul mercato negli Stati Uniti e in Europa, fra gli altri, e il documentario ben descrive come i trucchi contraffatti siano facilmente disponibili nel bazar di Santee Alley a Los Angeles, centro propulsore di vendita di cosmetici contraffatti al dettaglio. Alcuni tips che vengono sottolineati per riconoscere i brand contraffatti sono che questi costano generalmente la metà del presso ufficiale, i packages presentano solitamente imperfezioni (anche grammaticali) di grafica, non sono venduti sui siti ufficiali di brand e nemmeno dai retailers da loro riconosciuti.

Molto interessante sarebbe stato approfondire come la creatività del make-up si sposi con forme culturali non-occidentali e come gli stili di consumo ne siano riflessi. Se la “lipstick jihad” (Moaveni, 2005) è possibile in un paese come l’Iran in cui la rivoluzione ha avuto un significato politico preciso e il cambiamento laico per le condizioni di vita per le donne passa dall’atto di indossare determinati capi di abbigliamento o dalle nuance particolari sulle labbra per contrastare la coercizione a distaccarsi dal corpo, esiste un rischio di massificazione mono-colore in Occidente e trasportato dall’Occidente…? Cosa accade nel momento in cui l’Occidente acquisisce, invece, una serie di concetti estetici e cosmetici dall’Oriente, dalla Corea del Sud in particolare…? Come influisce sul mercato e lo stile di vita occidentale pensare a diverse forme di piacere tattile…?

Negli ultimi anni, infatti, il mercato europeo e statunitense è stato sempre più influenzato da trend di ‘skin-care coreana’ che introducono non solo degli step in più nella routine di bellezza, ma nuovi fluidi che la tecnologia cosmetica occidentale non conosceva (essenze con una consistenza tra il tonico e il siero, sieri con una consistenza tra la crema viso e il tonico, bb-cream che fungono da cosmetico ma anche da curativo della pelle, molto più naturale del fondotinta, etc …), nuovi effetti estetici da ottenere (‘glass-skin’ coreana con protagonista la base viso, splendente e ‘naturale’, invece che il focus classico occidentale su occhi e labbra), nuovi modelli di bellezza che prediligono la radiosità tipica della pelle delle asiatiche e che si sta affermando come leader anche negli standard di corporeità occidentale.

Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher CollinsIl secondo episodio del documentario affronta il tema della diffusione delle sigarette elettroniche e, nello specifico, il largo consumo che se ne registra negli Stati Uniti fra gli adolescenti. La tecnologia sfruttata dalle e-cigarettes, infatti, appare allettante e futuristica come quella di un MacBook agli occhi dei più giovani e l’indagine mostra come una delle maggiori e pionieristiche aziende produttrici di questo tipo di sigarette, la Juul, abbia accompagnato il lancio del suo prodotto nel 2015 con campagne pubblicitarie dirette ai più giovani attraverso VICE, sui palazzi di Times Square, sui social media con foto seducenti, etc. Queste campagne sono state in seguito vietate e assomigliavano parecchio a quelle a supporto delle Big Tobacco negli anni ’60, quando la normativa non prevedeva ancora il divieto di pubblicità per le sigarette.

I ragazzi intervistati e dipendenti dalle Juul non paiono neanche consapevoli di star fumando sigarette elettroniche che contengono nicotina assieme agli aromi. E che questa crea dipendenza. L’idea delle sigarette tradizionali li disgusta anche se alcuni studi citati all’interno del documentario hanno dimostrato che coloro che diventano dipendenti dalle e-cigarettes passeranno con più probabilità a fumare sigarette tradizionali.
Altro elemento di rilievo emerso rispetto al percorso imprenditoriale seguito dalla Juul dopo gli allarmi sull’alto consumo di e-cigarettes fra gli adolescenti è relativo all’acquisizione di questa azienda da parte del colosso del tabacco ALTRIA. Questa operazione ha rappresentato una grave perdita etica per il marchio, nato in contrapposizione concettuale alle grandi corporation di tabacco. Questo è stato giustificato come un accesso facilitato al loro vero target, che non sono gli adolescenti, quanto i fumatori tradizionali. La vera mission della Juul sarebbe, infatti, far smettere di fumare sigarette tradizionali. Ma se si sostiene di tenere alla salute pubblica come si può giustificare questa fusione…?

Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher CollinsIl terzo episodio di ‘Broken’ esplora un fenomeno che sembrerebbe in apparenza assolutamente lontano da pericoli di incolumità, fisica o psicologica, e che ancor più del make-up parli dello stile di consumo e non dello stile di salute o della cura di sé. Al contrario, il documentario getta luce sull’arredamento low-cost e sui mobili rivelatisi ‘fatali’.

I mobili, un tempo, fino agli anni ’80 più o meno, erano costruiti con l’intento di durare tutta la vita, utilizzare legno e dipendenti del luogo, senza delocalizzare. IKEA, un’azienda né statunitense né cinese ma svedese, ha rivoluzionato questa filosofia: l’arredamento può essere low-cost, lo componi tu a casa ed è fatto per essere cambiato, per prenderne di più moderni di volta in volta.

Anche la casa di una vita non è per sempre. Questo mercato sta facendo registrare negli Stati Uniti e non solo un alto tasso di mortalità infantile, nello specifico, dovuto a cassettiere he si riversano troppo facilmente sui bambini mentre giocano perché non ben fissati alle pareti. Tali disfunzioni hanno portato a una causa legale contro IKEA intentata da 3 famiglie che avevano perso i loro tre bambini per via della cassettiera IKEA Malm e viene vinta dalle famiglie, imponendo all’azienda di risarcirli con 50 milioni di dollari e con l’impegno di ritirare dal mercato la cassettiera.

Quest’ultima azione non pare essere stata adeguatamente perseguita dal brand. IKEA, inoltre, era perfettamente consapevole dei rischi legati alla Malm e nel libretto d’istruzioni si afferma che è responsabilità del compratore superarli fissando i mobili al muro. Il documentario sottolinea come questo tipo di onere non dovrebbe mai ricadere sull’acquirente, bensì il fabbricante dovrebbe vendere il prodotto come già stabile, efficiente e sicuro.

Il successo di una multinazionale come IKEA risiede non solo nel prezzo ma nel richiamo esotico alla Svezia che riesce a evocare come molla al consumo di ogni singolo prodotto che mantiene un nome svedese. Tale strategia di marketing ha anche oscurato per anni come e dove si procuri il legno IKEA: Romania, Ucraina, Cina, Siberia. Tutti paesi con manodopera da sfruttare a basso costo e dove si disbosca più facilmente in maniera illegale. Quest’ultimo aspetto legato inevitabilmente al fast-design cozza con la strategia ecosostenibile della propaganda di IKEA che ultimamente sta puntando al truciolato al posto del legno massello con esiti sulla qualità degli articoli tutta da dimostrare, ça va sans dire.

Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher CollinsL’ultimo episodio pone l’accento su qualcosa che invece è divenuta il capo d’accusa mainstream del movimento Fridays 4 Future e della crescente domanda ambientalista a livello globale: l’utilizzo della plastica. Il documentario, anche qui, inquadra l’oggetto culturale, la plastica, in quanto materia sociale-culturale-economica. Ed è proprio questa ricchezza di prospettiva, non atomistica, che fa porre domande incisive e aggettivi pertinenti: la plastica è resistente, flessibile, economica. Ma non biodegradabile, necessiterebbe a questo scopo di un 200 anni per essere smaltita.

E allora: in che modo la plastica dà forma a noi? ‘Broken’ passa in rassegna le differenti tipologie di plastica che richiedono diverse forme di riciclaggio ma invita a chiedersi se il punto non sia proprio la riciclabilità dei materiali. E’ possibile riciclare tutto? E’ questa la strada per ‘mettersi a posto con la coscienza’…?

Dopo il divieto della Cina di accogliere ulteriore materiale da riciclare in occasione delle Olimpiadi, nessun altro posto quanto il Sud-Est asiatico ha risentito dell’impatto, diventando la discarica del mondo. Un altro modo di affrontare il problema è stato quello della città di Laredo, a sud del Texas, che nel 2014 aveva introdotto il divieto di utilizzo delle buste di plastica (non riciclabili), poi invalidato dalla Corte Suprema del Texas sotto la pressione delle aziende produttrici di plastica.

In altre parole, esiste una retorica nociva sul riciclo che inficia un’adeguata discussione sulla sostenibilità: non produrre (o produrre meno) invece che riciclare, questo è il punto.
La rivoluzione trapassa il personale, la vita quotidiana, la pelle, come ben ci ricorda Moaveni (2005) quando racconta la ribellione in Iran ‘‘where the system tried to intrude, but ultimately could not control. The Islamic Republic does not control me; see it in the layers of makeup I apply to my face, the tightness of my jeans, the wantonness of my sex life, the Ecstacy I drop’’ (p. 83).
La visione di ‘Broken’, in ultima battuta, è riservata a chi è disposto ad accorgersi di come il cambiamento, così come le abitudini, passano in ogni momento della vita di ognuno/a. È proprio l’effetto straniante della varietà dei consumi che bisognerebbe combattere.Broken (2019), documentario originale Netflix e prodotto da Christopher Collins

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