Viaggi cosmici e paradossi spazio-temporali alla galleria Gilda Lavia di Roma. Le opere di Leonardo Petrucci parlano di Astronomia e Astrofisica, ma anche di Cabala e Alchimia: il risultato è sorprendente e pionieristico, in mostra fino al 18 gennaio.
Il titolo che Leonardo Petrucci ha scelto per la sua ultima mostra, Once upon a time, offre un appiglio rassicurante per le nostre aspettative, in quanto evoca la classica apertura di ogni racconto che si rispetti, le parole di fronte cui ognuno di noi si appresta con serenità ad ascoltare una storia. Al di là di questo c’è però ben poco di canonico nel contenuto dell’esposizione, che sarà aperta fino al 18 gennaio presso la galleria romana Gilda Lavia: più che narrare una fiaba lineare, l’artista propone un viaggio in una dimensione temporale avvolta su stessa e sulla propria ambiguità. Non per analizzarla in modo rigoroso, ma per presentare lo scarto insanabile tra la nostra percezione mutevole del tempo e la sconfinata eternità cosmica.
Un sovvertimento dei concetti di spazio e tempo ulteriormente complicato dalla modalità con cui viene presentato. Accanto all’interesse per l’Astronomia e l’Astrofisica, nell’ambito di una ricerca artistica che indaga questioni scientifiche, Petrucci associa anche una forte attenzione verso la Cabala e l’Alchimia, con le cui proprietà simboliche dà vita a opere che non dichiarano direttamente il loro intento concettuale, lasciandolo invece emergere in modo progressivo e graduale. All’artista non interessa risultare esplicito, ma occultare forme e significati affinché l’osservatore, pur di fronte a una lettura difficile, sia più responsabilizzato e libero nel varcare territori inesplorati.
Lungo le pareti dello spazio principale ci sono linee disegnate a matita che rappresentano in successione le costellazioni dello Zodiaco e che introducono un tipo di temporalità veloce e inafferrabile: tali rappresentazioni riproducono simbolicamente ciò che avviene in cielo, dove gruppi di stelle distanti anni luce e già appartenenti al passato ci presentano in maniera istantanea e fulminea la loro luminosità. Un paradosso che l’artista non tralascia ma su cui, anzi, si sofferma per contrasto: al posto delle stelle inserisce una delle testimonianze più ‘ferme’ e statiche della nostra antichità, fossili di Cefalopodi e Ammoniti riprodotti con calchi in cemento. Elementi che diversamente dall’ambiente cosmico, continuamente oscillante tra passato e presente, indicano, con la loro immutabilità e resistenza al tempo che scorre, un esempio tangibile e concreto della nostra preistoria. La rapidità con cui la vita dei pianeti si concretizza di fronte a noi è puntualmente negata dalla lentezza con cui l’esistenza di organismi animali si sedimenta lasciando traccia del proprio scheletro.
Ciò che ne deriva è un cortocircuito concettuale che confonde la percezione dello spettatore e che è chiaramente esemplificato sul tramezzo al centro della sala: qui un piccolo frammento originale di meteorite ferroso è inserito in un orologio e ne blocca le lancette dei secondi, che perciò oscillano leggermente senza mai procedere in avanti. Un’indagine sulla natura del Sole consente poi a Petrucci di proseguire sulla strada di questo sfasamento. Da un lato viene esposta un’immagine della stella madre del nostro sistema planetario che, dopo l’esposizione di un anno ai raggi solari, ha assunto un colore sbiadito rendendo evidente l’azione lenta ma inesorabile del tempo. Dall’altro c’è una fotografia realizzata in lunga esposizione verso il cielo al crepuscolo: il risultato è un fascio luminoso dai contorni definiti, un’istantanea dell’irradiazione del Sole, apparentemente inafferrabile nella sua rapidità. Una velocità che, tuttavia, è solamente presunta, dato che in realtà la luce del nostro pianeta di riferimento giunge sulla Terra con un ritardo di ben otto minuti. La forma ottenuta in fotografia viene riprodotta in metacrilato sul piedistallo di fronte, generando una scultura trasparente dagli angoli smussati.
Nella seconda sala l’artista rivela che il percorso proposto allo spettatore tra successioni cosmiche e paradossi spazio-temporali non vuole essere solo teorico ma avvicinarsi il più possibile a un’esplorazione reale e pioneristica. Lo esprime con un tappeto realizzato in India che presenta la riproduzione di una parte del suolo di Marte, resa possibile grazie agli scatti inviati dal 2012 a oggi dalla sonda Rover Curiosity, che con il suo stesso atterraggio ha generato uno dei crateri riportati sul tessuto. L’obiettivo dell’opera Sol2081, parte di un progetto più ampio iniziato nel 2018 e avvalorato dal patrocinio della NASA, è quello di calpestare idealmente il terreno del Pianeta Rosso, di concedere a ognuno di noi la possibilità simbolica di essere la prima persona a metterci piede.
In tal senso si spiega, a chiusura della mostra, Portrait of Mars, una tela assemblata con una composizione di materiali quasi analoghi a quelli rinvenibili su Marte, la cui sagoma simula fedelmente gli avvallamenti e le cavità del pianeta stesso. L’unica variazione consiste nell’avervi necessariamente aggiunto sostanze peculiari della Terra, per compensare la non reperibilità sul nostro territorio di alcuni composti originali. Anche tramite questa leggera differenza si chiarisce l’aspetto fantasioso e sognante introdotto dal titolo Once upon a time. Per quanto il racconto narrato renda il più possibile l’idea di un’indagine reale sull’ambiente spaziale, resta inevitabilmente una componente immaginaria dovuta al fatto che, pur potendo toccare e studiare il suolo marziano, ci sfugge ancora una reale padronanza della sua superficie; ma è soprattutto nel più ampio spazio cosmico che, nonostante i secoli di studi alle spalle, ci manca l’effettiva cognizione di una temporalità ambigua e distorta che continua a confondere le nostre menti.
Questo contenuto è stato realizzato da Mario Gatti per Forme Uniche.