Insieme alla propria funzione l’opera d’arte ha gradualmente cambiato anche la sua nomenclatura. Dal titolo mimetico al Senza titolo, il variare del nome affibbiato all’opera testimonia l’evoluzione del significato che l’arte ha assunto nella storia.
L’errore dell’uomo è stato di credere che dando un nome ad ogni cosa sarebbe venuto a capo dell’essere ”
Kasemir Malevič
Dare un nome al mondo intorno a noi significa costruire una gabbia semantica in grado di racchiudere, circoscrivere, indirizzare al nostra attenzione e le nostre capacità cognitive verso un preciso significato. Risulta quindi utile per comprendere, decifrare, catalogare e rendere più semplice la fruizione della realtà che ci circonda. Forse è addirittura un istinto inevitabile. Per questo l’opera d’arte non poteva fare eccezione: in quanto veicolo di significato, specchio del reale, l’opera ha per secoli portato con sé un titolo esplicito ed esemplificativo. Opere rinascimentali come La nascita di Venere (Sandro Botticelli), l’Ultima Cena (Leonardo da Vinci) o il Giudizio Universale (Michelangelo Buonarroti) esprimevano il proprio carico didattico sia grazie alla riproduzione figurativa e mimetica dell’immagine, sia anticipandone – o approfondendone – il messaggio attraverso un nome il più possibile illustrativo e aderente al contenuto stesso. Le ragioni di questa necessità sono da rintracciare proprio nella natura dell’arte antecedente all’Ottocento/Novecento, quando essa soggiaceva ancora alla dittatura della bellezza classica, esteticamente intesa come riproduzione fedele della realtà. Imitazione del reale dunque, più che interpretazione di esso.
Questa seconda linea viene invece adottata dalle avanguardie storiche del Novecento, come approdo quasi naturale del viaggio intrapreso dall’Impressionismo verso un’arte che interpretasse lo spettro del reale oltre il suo limite visibile. Dimenticato il suo valore mimetico, l’arte del XX secondo ha fin da subito preferito costruire complesse trame visive che andassero a rivelare – non senza qualche aspetto criptico – una dimensione interiore dell’uomo e della natura spesso trascurata dai maestri del passato. Non è questione di merito o demerito, di meglio o peggio, ma semplicemente una ragione dettata dalla funzione: l’arte mimetica guarda alla bellezza esteriore, l’arte delle avanguardie volge invece a quella interiore. Nell’oscuro – e molto più soggettivo – universo della sfera emozionale diversi livelli di interpretazione si sovrappongono in un paesaggio incomprensibile al primo sguardo, dove è necessario affondare e perdersi, prima di ritrovarsi.
Se l’arte mimetica ci dice ciò che siamo, l’arte moderna ci suggerisce chi potremmo essere. Per farlo utilizza tutti gli strumenti a sua disposizione: il titolo diviene così chiave d’accesso a composizioni misteriose (Quelli che restano, Umberto Boccioni), rafforzamento del sentimento che l’opera intende esprimere (Strada principale e strade secondarie, Paul Klee) oppure utile occasione per instaurare un gioco semantico, spesso paradossale, con l’opera stessa (Ceci n’est pas une pipe, René Magritte). Così facendo il canale diretto tra immagine e parola si frantuma in diverse soluzioni, svincolandosi dall’interpretazione univoca e consegnandosi alla sensibilità del singolo. Se l’arte si propone di sondare le zone d’ombra dell’animo – e ogni animo umano è unico e irripetibile – l’opera non può che svicolare verso la soggettività di ognuno. Il titolo deve quindi suggerire, instradare, accendere per un attimo la luce su un sentiero che l’osservatore dovrà poi percorrere con i propri strumenti. Questo sottintende forse una fruizione più attiva all’opera, chiamata a porsi in dialogo con chi la interroga, in una relazione dinamica e sensibile a variare a seconda del soggetto, del momento e del luogo in cui si entra in contatto con essa.
Ecco, dunque, qualcuno che trova una lingua, per se soltanto, la quale appare tanto logica e chiara che egli inizia a fare con essa comunicazioni. Gli altri non capiscono una sola parola, ma certuni si sentono afferrati nel più profondo dei modi, poiché sperano che, alla fine, il mistero possa diventare percepibile coi sensi “
Wassilij Kandinsky
Wassilij Kandisky rappresenta l’approdo non definitivo del movimento verso l’emancipazione dell’arte dalla realtà. A lui si attribuisce nel 1910 la realizzazione della prima opera astratta: Senza titolo; e, collegato alla sua natura non figurativa, la comparsa del primo Senza titolo. Nella dimensione non figurativa – dove il soggetto si perde nell’indefinito – il titolo non solo non è necessario, ma potrebbe addirittura essere dannoso: se l’opera non deve significare nulla, perché allora tentare di condizionarne esistenza e finalità? Piuttosto abbiamo da godere dell’abbandono della realtà e della conquista della libertà, della possibilità di scavalcare le forme naturali, di valicare il limite che l’imitazione imponeva alla soggettività e alla piena espressione della varietà (e profondità) del mondo. Colori, linee e forme pure sono lettere di un alfabeto creativo che ognuno può comporre assecondando gli slanci del proprio spirito, le inclinazioni della propria sensibilità e le vertigini dei propri desideri. L’opera che si presenta senza alcun grado di spazialità e temporalità può essere letta da ogni verso, approcciata lateralmente o sviscerata dal centro, può assumere le forme chimeriche dell’imprevisto. Il Senza titolo è l’etichetta-non etichetta che permette di fare tutto ciò. Non c’è indicazione o indirizzo, l’arte talvolta preferisce condurci in terre senza nome.
Senza titolo come esplosione di alternative, ma anche come azzeramento di possibilità. Se nel campo astratto la vaghezza conduce all’interpretazione e all’esperienza personale, l’arte del secondo Novecento (su tutti Minimalismo e Arte Povera) ha sfruttato il Senza titolo per ammonire circa il divieto di tradire le apparenze. Nelle forme lisce e pure del Minimalismo, per esempio, l’assenza di una chiave interpretativa ha il preciso scopo di indirizzare l’attenzione verso l’autonomia strutturale del medium utilizzato. Sol Lewitt lo sfruttava per convogliare l’attenzione sul codice linguistico perfetto e razionale dell’arte, realizzato per decostruzione e ricostruzione di strutture semantiche precise e ripetute, a cui un nome avrebbe aggiunto un ingombrante carico narrativo. In un modo simile i poveristi – come Jannis Kounellis, che addirittura chiamò un suo libro Senza titolo – privando l’opera di un nome intendevano esaltare il lavoro stesso, nella natura dei suoi materiali, nella loro relazione, nel loro parlare una lingua pura priva di parole.
La propensione al Senza titolo si è negli anni consolidata a tal punto che il conto degli artisti che ne hanno fatto ricorso si è perso: Mark Rothko, Joseph Kosuth, Alighiero Boetti, Mimmo Paladino, Giulio Paolini e tanti altri ancora. Anche le ragioni dietro questa scelta si susseguono e confondo, alimentando di fatto lo sforzo critico dell’osservatore. Da una parte è certamente presente una certa inclinazione elitaristica – nella cripticità, nella rinuncia ad offrire chiavi interpretative, nell’aura mistica – dall’altra ciò che inizialmente spaventa può diventare un’opportunità: davanti ad una condizione di eloquente silenzio e benefico smarrimento non ci rimane che affondare nelle pieghe dell’opera per scoprirne significati e risvolti inattesi.