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Antoni Tàpies secondo Massimo Recalcati: la psicoanalisi legge l’artista con il muro nel destino

Antoni Tàpies Antoni Tàpies
Antoni Tàpies
Antoni Tàpies

Dopo la prima lezione su Alberto Burri, prosegue con Tàpies il ciclo di tre incontri che lo psicoanalista Massimo Recalcati sta tenendo all’Accademia di belle arti di Brera. Il Trauma dell’opera. Percorsi dell’arte contemporanea letti attraverso la psicoanalisi. Burri, Tàpies e Parmiggiani si concluderà il 31 gennaio con l’incontro su Claudio Parmiggiani. Abbiamo qui tentato di restituire il cuore della lezione del professore.

Il muro è lo strano destino che porto nel mio nome”

 

Antoni Tàpies

Il percorso artistico, come quello esistenziale, non è dato a priori. Se una certa narrazione romantica (ma a dire il vero anche determinati impianti filosofici, come per esempio quello crociano) individua nella mente la capacità generativa di uno scheletro estetico da riportare poi semplicemente (si fa per dire) sul supporto dell’opera, per molti artisti non è stato così. Lontano dall’idea di un’ispirazione creatrice che detta all’artista lo spartito della composizione, Antoni Tàpies, parlando del suo atteggiamento attorno a questa questione, affermava che «All’inizio lo scopo non è sempre chiaro: il cammino si forma sotto i passi». I passi del pittore spagnolo – grande interprete della corrente dell’informale, anche se ufficialmente non aderì mai a nessun gruppo – sono stati particolarmente grevi e ponderati, carichi di riflessioni e passaggi decisi; o almeno questa è la lettura psicoanalitica che ne dà Massimo Recalcati.

Come il Professore annuncia, l’assunto principale attraverso cui è possibile applicare la psicoanalisi all’arte è che si intenda l’opera come fondante della biografia e non viceversa. In poche parole, dobbiamo considerare il lavoro artistico compenetrato con il sentiero di vita di un soggetto, pari a qualsiasi altro aspetto della sua esistenza; non un accessorio da contestualizzare col senno di poi, ma un elemento necessario al meccanismo del suo esistere. In questo contesto dove la creazione appare così ancora più faticosa nel suo dover attraversare un sentiero sconosciuto per giungere all’opera, la domanda centrale diviene una: qual è il segreto del processo creativo?

Antoni Tàpies, Autoritratto
Antoni Tàpies, Autoritratto

Seguendo le riflessioni dello psicanalista e filosofo Jacques Lacan – padre professionale di Recalcati – sulla differenza tra reale e realtà, possiamo addentrarci lungo il misterioso procedere del fare artistico. La realtà è ciò che ritroviamo inesorabile ogni mattina al nostro risveglio; è la rappresentazione stabile, coerente e rassicurante del mondo intorno a noi. Su di essa si fonda l’abitudine, la quotidianità, la ripetizione. In questa culla di sicurezze, secondo Lacan, giaciamo come addormentati: riposiamo nella realtà per evitare di entrare a contatto con il reale. Il reale dunque, al contrario, rappresenta lo spaventoso e angosciante contatto con la vita nuda, pura e pericolosa, incomprensibile nel suo svelarsi e sottrarsi, condizionarci per poi nasconderci, suggerire per poi negare e abbandonarci all’incertezza. Riconducendo questa dicotomia al mondo artistico, possiamo affermare che la realtà sia figurabile e rappresentabile, il reale no: il reale è informe, magmatico, ombroso, impermeabile a qualsiasi trasposizione artistica. Quel che può fare l’arte, per Lacan – e Tàpies l’ha puntualmente messo in pratica – è muoversi su questo confine, contornare il limite di queste dimensioni tanto vicine quanto distanti. Il processo creativo si configura dunque come “organizzazione del vuoto” (Lacan, seminario VII), volta a dare parvenza di forma a ciò che forma non ha. Il miracolo si compie dunque nel tortuoso adattarsi dell’artista al sentimento creativo che lo ispira, cercando di trasportarlo dalla dimensione reale da cui proviene fino ad una realtà dove questo sia comprensibile.

Il più grande mistero che Antoni Tàpies ha provato a ricondurre alla realtà è stato se stesso. Lui, come tutti noi, percepiva la propria presenza del mondo chiaramente, ma si scontrava con una strana mancanza di risorse nel momento di definire chi egli fosse realmente. Per questo tutta la sua prima produzione (figurativa) è stata volta a decifrare la propria persona attraverso l’autoritratto; e in particolare, al centro di questa auto-rappresentazioni dal codice vagamente surrealista, attraverso gli occhi. Occhio come ulteriore luogo dicotomico, dove il supporto anatomico manifesto (l’occhio, appunto) non coincide con ciò che ne rivela la sua autentica natura, ovvero lo sguardo. Tàpies ha provato a raffigurare il proprio sguardo centinaia di volte ma, proprio come noi davanti allo specchio, questo gli sfuggiva puntualmente. Come per sua definizione, lo sguardo è “un luogo di oscurità impenetrabile e di chiarore abbagliante” e per questo impossibile da ritrarre. Davanti al mistero della sua essenza, Tàpies ha rinunciato così alla figura per volgersi verso l’essenziale.

Antoni Tàpies, Autoritratto
Antoni Tàpies, Autoritratto

Nel suo ultimo autoritratto lo vediamo allora indicare con il dito indice un foglio appoggiato sul piano davanti a lui. Sul biglietto vi è scritto il suo nome: Tàpies. Cosa c’è di strano? La T di Tàpies è molto più grande delle altre lettere e il trattino orizzontale scende lungo quello verticale quasi a formare una croce. Lontano dalla simbologia cristiana, la lettera in questione assume però un ruolo centrale nel nuovo capitolo di ricerca dell’artista. La sua attenzione ha iniziato così a indirizzarsi verso il mistero del nome proprio e, snellendo ulteriormente, verso il mistero della lettera. I ragionamenti dell’artista quanto l’essenza della sua persona lo portano a distanziarsi dall’iniziale narcisismo legato alla propria immagine e a favorire definizioni simboliche raccolte nella forza evocativa della lettera che lo definisce. Così, seguendo la pratica d’ispirazione orientale del Metodo della riduzione, Tàpies finisce per identificarsi con un elemento suo ed unico – come il nome proprio, come la propria iniziale – che allo stesso tempo sia chiaro ed univoco (solo lui è Antoni Tapies) ma allo stesso tempo conservi qeull’irriducibile mistero che è la sua persona.

Allora i suoi autoritratti, a cui mai rinuncerà, con il passaggio ad uno stile sempre meno classico e figurativo iniziano a favorire la comparsa delle T, spesso proprio a discapito degli occhi. In questa operazione di riduzione, già sperimentata da Burri (la base dell’opera – i sacchi o la tela – è importante quanto l’opera stessa) e da Manzoni (gli elementi basilari dell’opera sono già loro stessi opera), Tàpies condensa la poetica della lettera in soluzioni prive di forma e figura. Il suo informale, come lui stesso ha provato a definirlo, può essere inteso come una terza declinazione dell’astrattismo – che vede una dimensione coloristica in Kandinsky e Rothko, per esempio; una dimensione geometrica in Mondrian e Malevič – volta ad esaltare la trama, ovvero qualcosa che abbia una consistenza pur non essendo definita; un embrione di esistenza, ma pur sempre un corpo.

Antoni Tàpies (1923-2012) Arquitectura (Architecture)
Antoni Tàpies, Arquitectura (Architecture)

Dall’unione tra questa esigenza di fisicità, la quale conservi però un aspetto spirituale, e la continua pulsione all’autoanalisi nasce la sua più celebre soluzione artistica: i muri. I muri sono dimensioni spaziale dove coesiste anche una realtà temporale composta di segni, tracce, graffi, incrostazioni che rimandano simbolicamente ad un contenuto universale. Inoltre, continuando nella riflessione sul nome, Tàpies in catalano è un termine che si utilizza proprio per indicare il muro. Quale significato profondo, di identificazione personale e universale, questo elemento assuma per l’artista, solo le sue parole possono restituirlo appieno:

Separazione, clausura; muri del pianto, muri delle prigioni; testimonianze del passare del tempo, superfici lisce, serene, bianche, superficie tormentate, vecchie, decrepite; segni di impronte umane, di oggetti, di elementi naturali; sensazione di lotta, di sforzo, di distruzione, di cataclisma o di costruzione, di creazione, di equilibro; detriti d’amore, di dolore, di disgusto, di disordine; prestigio romantico delle rovine; apporto di materie organiche, forme suggestive di ritmi naturali e del movimento spontaneo della materia; senso del paesaggio, suggestione dell’unita fondamentale di tutte le cose; materia generalizzata, affermazione e valorizzazione dell’elemento terra; possibilità di distribuzione varia e di combinazione di grandi masse, sensazione di caduta, di affondamento, di espansione, di concentrazione; rigetto del mondo, contemplazione interiore, annientamento delle passioni, silenzio, morte; lacerazioni, torture, corpi squartati, detriti umani; equivalenza di suoni, sfregi, raschiamenti, esplosioni, scariche di fuoco, colpi, martellamenti, grida, echi risuonanti attraverso lo spazio; meditazione di un tema cosmico, riflessione grazie alla contemplazione della terra, del magma, della lava, della cenere; campo di battaglia, giardino, terreno di gioco, destino effimero”

 

A.Tapies, Comunication sur le mur, cit., pp.212-213

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