Le Piccole donne di Greta Gerwig? Piene di vita, contraddizioni e bellezza. In sala il film nominato a 6 premi Oscar con Saoirse Ronan e Timothée Chalamet
Per qualche oscura ragione le seconde regie che seguono ottimi e promettenti debutti sono (molto spesso) film in costume. Il fascino e le sfida che comportano la “classicità” sembrano essere attrattive irresistibili agli occhi di ogni regista ambizioso (talentuoso o velleitario che sia). Non fa eccezione Greta Gerwig che dopo Lady Bird ha deciso di portare sul grande schermo l’opera immortale e amatissima e lettissima e fondamentale di Louisa May Alcott, Piccole donne. Ancora una volta, la sesta, ritroviamo quindi sul grande schermo le sorelle March: Jo, Meg, Amy e Beth.
La regista, che firma anche la stesura della sceneggiatura, per l’occasione ha chiamato a raccolta un cast con i preferiti dai giovani cinephile. Saoirse Ronan, ufficialmente attrice feticcio di Greta e Wes Anderson, è Jo, voce narrante nonché la sorella March più amata (nonché avatar della stessa Louisa May Alcott). L’attrice di Lady Bird e Brooklyn arriva così alla sua quarta nomination Oscar.
Emma Watson (Harry Potter, Bling Ring) ha sostituito Emma Stone che era stata chiamata per la parte di Meg, Florence Pugh (Lady Macbeth, Midsommar) è Amy e Eliza Scanlen (Sharp Objects) Beth.
Meryl Streep si diverte a fare la vecchia befana nel ruolo di zia March e Laura Dern (Marriage Story, Big Little Lies) è la capofamiglia, Marmee.
A dar volto ai protagonisti maschili del racconto, solo all’apparenza personaggi secondari, abbiamo il gettonatissimo Timothée Chalamet (Chiamami col tuo nome, Un giorno di pioggia a New York) è un perfetto Laurie, damerino frivolo ma tormentato, James Norton (Sidney Chambers di Grantchester) è il pastore squattrinato John Brookee e Louis Garrel (Mal di pietre, L’uomo fedele) è Friedrich Bhaer. Forse, a voler ben vedere, tutti un po’ troppo belli, ma cara grazia!
Alla colonna sonora troviamo l’onnipresente Alexandre Desplat. Risultato: per il momento sei nomination agli Oscar incassate (Miglior film, Miglior attrice protagonista, Miglior attrice non protagonista, Miglior sceneggiatura non originale, Miglior colonna sonora e Miglior costumi).
Greta Gerwig prende un testo classico (anzi due, Piccole donne e Piccole donne crescono) e lo stravolge un po’, senza strapazzarlo. Con amore e dedizione lo scompagina e lo ricostruisce per dar forma a un coming of age dal ritmo e dalla vitalità contemporanea. Come per Lady Bird, la sua è una lettera d’amore, sincera e accorata.
Inizia dal fondo e tramite una serie di flashback, sogni e ricordi, intreccia i due romanzi e ricostruisce l’infanzia delle sorelle March che ci vengono presentata già adulte. Jo è a New York che cerca di affermarsi come scrittrice, Amy in Francia con la zia March, Meg sposata con James che rimpiange gli abiti di lusso e la bella vita a cui ha dato un calcio in favore dell’amore e Beth… Beth è in fin di vita. L’epilogo della storia è noto, ma per rispetto a tutti i Joey che esistono là fuori sorvoliamo.
Nel viaggio di ritorno verso casa che compie Jo, ufficialmente il “maschiaccio” del gruppo (quella che non ha mai voluto rinunciare alla realizzazione di sé e alla propria indipendenza), si compie la narrazione di questo Piccole donne pieno di vita. Greta non ha l’istrionismo dei grandi maestri™ (Scorsese e Tarantino), ma ha sufficiente mestiere e visione per dar luce a un film in cui la forma riesce a sostenere l’emozione senza soffocarla. Unica nota dolente, in quest’ottica, si rivela la colonna sonora: troppo classica e invadente. Il film ha un ritmo tale che avrebbe potuto anche farne a meno, sarebbe stata una scelta drastica, coraggiosa. Forse troppo.
Le sue sorelle March della Gerwig sono palpitanti, appassionate, piene di vigore e contraddizioni, non si lasciano soffocare dalle crinoline e dai bustini. Sono femministe? Non lo so. Nemmeno le femministe sanno cosa sia il femminismo. Ognuna, probabilmente è femminista a modo suo. Gli uomini del loro mondo sono pronti ad accoglierle con tutti il bagaglio di difetti che si portano appresso, anche a costo di un disastro annunciato. Sono loro, le piccole donne ormai adulte, a dover accettare le proprie complessità.
Meg rinuncia al lusso (e a una possibile carriera) in favore all’amore, non senza qualche rimpianto, ma con convinzione, Amy scende a patti con la propria mediocrità come artista e cede all’amore della sua vita, meditato in segreto nel suo cuore per tanti anni. E Jo… Jo si taglia i capelli non per essere più simile a un uomo, ma come sacrificio estremo, piange lacrime amarissime per la chioma perduta, e dopo aver rinunciato all’amore (anche solo all’idea) per imporsi nel lavoro crolla e si sente sola, vuota, persa senza le sue sorelle. È sopraffatta dai dubbi. Le dà coraggio la madre: restare fedeli a sé stessi, alle proprie ambizioni e ai propri sentimenti è la strada giusta, quel che deve arrivare arriverà. È la vita.