Lo studio dove prima c’era la sua casa; mi offre subito un tè, la tazza è leggermente sbeccata, una crepa la percorre, ma non c’è fuoriuscita di liquido, o almeno non sembra. Tre stanze, la prima occupata da una piccola cucina, a seguire uno studio, due tavoli, ci sediamo accanto a quello vicino alla finestra. Appoggio la tazza sul piano, la crepa non sembra compromettere la funzione della tazza, il tavolo non si macchia, probabilmente si riscalda solo un poco. Non ci siamo mai visti prima, io e Alessandra Spranzi, nel suo studio a Milano. Sgombera subito il campo da possibili malintesi, non è una fotografa. Sì, insegna fotografia, ma questo non è sufficiente per farla rientrare nella categoria, fortunatamente significa poco, quasi nulla. Quanto è facile tenere una macchina fotografica in mano, quanto è difficile capire la forma di una forchetta o di un uovo. Appoggio il mio braccio al tavolo, come gli oggetti che lei fotografa, poco distante, verso la finestra c’è un foglio, probabilmente una fotocopia o una stampa su carta leggera, è la fotografia di sette gusci d’uova perforati e risucchiati da una faina. Una fotografia trovata all’interno di un libro o una rivista, una fotografia ritagliata e rifotografata, un gesto d’appropriazione. Le uova sono disposte in maniera circolare, sei a formare un piccolo tondo e una al centro. I buchi sui gusci sembrano abrasioni, piccoli spazi colorati, l’impronta di Piero Manzoni sulle sue uova “timbrate”. Uova svuotate, rese leggere, appoggiate ad una superficie, come lo sono io con il mio braccio che si avvicina alla tazza incrinata, leggermente malata. Bevo mentre lei si alza a preparare altro tè.
Parliamo di letteratura, di scrittura, mi dice che da adolescente, in estate, nella casa in campagna, leggeva molto, io non mi ricordo cosa leggevo da bambino, da preadolescente, da adolescente. Non sapevo cosa rispondere quando mi ha chiesto se ho modelli di scrittura, autori che mi avessero indirizzato. Non sapevo cosa rispondere, perché non ho modelli, non ho autori preferiti, non ho libri preferiti, e ho poca memoria. Ho fatto qualche nome che probabilmente adesso non rifarei. Alessandra si alza, stiamo ancora parlando delle sette uova disposte a cerchio, della natura che mangia, che inevitabilmente si mangia. Fa pochi passi nella stanza, recupera un foglio con una sua pittura ad olio, se non ricordo male. Sei uova, disposte circolarmente e una al centro, su ognuna di esse c’era una macchia di colore, come fosse una lacuna. Ha riprodotto l’immagine fotografica in pittura, una nuova trascrizione, sempre quell’immagine, accenno a Cézanne, con una certa vergogna, la mia immaginazione non è riuscita ad andare oltre.
Sette uova appoggiate ad un piano. Mi dice dell’importanza del tavolo, come spazio fondante del “discorso”, che spesso gli oggetti che fotografa sono appoggiati ad un piano con quattro gambe perché quasi tutte le nostre attività si svolgono intorno ad esso. Anche noi in quel momento, appoggiamo noi stessi, appoggiamo oggetti, spostiamo elementi provando le diverse possibilità combinatorie che si possono manifestare. Oggetti, non sono altro che oggetti: sono a casa e leggo le sue parole a proposito di un lavoro del 2008, Selvatico (colui che si salva), “le cose sono finalmente libere dalla schiavitù di essere utili. Gli animali da quella di essere amici. L’uomo da quella di sorridere, può finalmente voltarsi e dare le spalle, uscire fuori, andare indietro, dentro la selva, errare, salvarsi”. Fotografie di oggetti, utili e non utili, ma l’utilità è una categoria che scompare, perde il suo peso specifico e il suo posto nel mondo. Sono oggetti e la difficoltà è riuscire a capirli come tali; tutti abbiamo bisogno di essere salvati, di proteggere le nostre uova, anche se aperte dai denti di una faina, anche se svuotate, prosciugate. Rimane un guscio, una superficie che si curva e cade in un piccolo cratere inoffensivo. Qualcosa che occupa uno spazio, appoggiato ad un tavolo. Non fa niente se il tè uscirà dalla tazza, se la crepa non reggerà la pressione dell’acqua.