Alla Galleria d’Arte Moderna/Parco Galvani di Pordenone quaranta opere per (ri)scoprire l’insuperabile maniera di Giovanni Antonio de’ Sacchis
I luoghi comuni trovano terreno fertile per attecchire quando mancano informazioni certe e chiare, quando mancano approfondimenti e anche dibattiti e dispute fra opinioni diverse. Quel che è accaduto attorno alla figura di Giovanni Antonio de’ Sacchis, artista cinquecentesco noto a tutti con lo pseudonimo tratto dalla sua città di origine, Pordenone. L’ultima mostra a lui dedicata, occasione per metterlo al centro dell’attenzione, risaliva a 35 anni or sono, 1984, curata da Caterina Furlan a Villa Manin a Passariano, dove erano esposti i dipinti, mentre l’ex-Convento di S. Francesco di Pordenone accoglieva l’opera grafica. E la critica e la storiografia sembravano aver via via perso interesse per una figura invece esaltata dagli storici più antichi: Vasari gli dedicava un’entusiastica Vita, collocandolo fra i “valenti uomini che abbia avuto l’età nostra, apparendo massimamente le sue figure tonde e spiccate dal muro e quasi di rilievo, si può fra quelli annoverare, che hanno fatto augumento all’arte e benefizio all’universale”. Più tardi rilanciare la dignità di questo grande artista sarebbe toccato a Marco Boschini, nella sua preziosa “Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia e Isole circonvicine”, del 1674, dove sottolineava come Pordenone “inventò capricciosamente, e con facilità, dipingendo con prontezza e risoluzione sia a fresco, che ad olio”, e un secolo dopo all’abate Luigi Lanzi, nella sua “Storia pittorica della Italia”.
In questa situazione, i luoghi comuni formatisi attorno alla figura e all’opera del de’ Sacchis sono almeno due: il primo, quello che lo vuole limitare al migliore dei pittori friulani, o a trattarlo bene a comprimario dell’arte veneta; il secondo, quello che ne rimarca la rivalità – perdente, per lui – con il dominus Tiziano come quasi esclusivo motivo di attenzione. Quest’ultimo luogo comune, a onor del vero, alimentato già da Vasari, che parla apertamente di “concorrenza”, e da Boschini, che arriva ad accusare Tiziano di esser stato il mandante dell’ancora ipotizzato omicidio del Pordenone. Di smentire queste miopi valutazioni si incarica ora egregiamente la mostra curata dalla stessa Furlan e da Vittorio Sgarbi fino al 2 febbraio alla Galleria d’Arte Moderna/Parco Galvani di Pordenone, il cui unico difetto è forse proprio negli spazi espositivi spesso troppo angusti per le potenti e monumentali costruzioni del de’ Sacchis. Limiti che si dimenticano presto davanti alle quaranta opere che raccontano una storia del tutto diversa da quella attesa: raccontano di un pittore pienamente inserito nelle dinamiche del primo Manierismo italiano, un personaggio che – ricco del giovanile bagaglio giorgionesco – abbandona presto la provincia per immergersi pienamente nel gangli vitali del Rinascimento più maturo, accorre a Roma a metabolizzare le rivoluzioni delle Stanze di Raffaello – suo coetaneo – e della Sistina di Michelangelo, per poi riportare in Friuli e soprattutto a Venezia una maniera ormai affrancata da provincialismi, che lo pone pienamente nel novero dei migliori eredi di questi genii, da Parmigianino a Lotto a Correggio, da Romanino a Dosso Dossi, Savoldo, Moretto, Schiavone, Bassano. Non a caso voluti da Sgarbi – con non pochi mugugni della purista Furlan – in questa mostra, per dare il giusto contesto alla parabola del Pordenone.
I modi dell’artista si arricchiranno con nuovi viaggi dove incrocerà questi e altri protagonisti del Manierismo padano, per commissioni a Cremona, a Piacenza, fino a concepire – scrive Sgarbi nel catalogo – “un capolavoro struggente e drammatico come la Deposizione di Cristo per la chiesa dell’Annunziata di Cortemaggiore, certamente vista da Caravaggio, che ne ritenne e ne restituì, decenni dopo, la primaria drammaticità”. E la sala più bella della mostra attuale è senza dubbio quella che – con scenografico sfondo rosso – presenta proprio la Deposizione da Cortemaggiore affiancata dal Compianto di Correggio proveniente da Parma e dallo struggente Cristo in passione e l’angelo del Moretto. Proprio in riferimento alla Deposizione ancora Sgarbi – che per gli affreschi di Cremona aveva parlato di una libertà espressiva che ricorderebbe Jackson Pollock – azzarda un provocatorio richiamo ad Alberto Burri, per il trattamento quasi “informale” della roccia che sovrasta il Cristo e gli astanti…