In occasione di Partiture illeggibili – progetto espositivo realizzato a cura di Angela Madesani e fruibile, fino al 22 febbraio, presso gli spazi felsinei di Labs Gallery – abbiamo intrapreso un ricco dialogo con Nina Carini, artista siciliana che sviluppa, attraverso la sua ricerca, un delicato e stretto rapporto fra arte, tempo e vita indagando il corpo e il linguaggio attraverso le loro funzioni narrative, poetiche e relazionali.
Partiture illeggibili mette in relazione il tuo fare con quello di Greta Schödl (Hollabrunn, 1929) e Leila Mirzakhani (Teheran, 1978). Come le opere hanno dialogato con lo spazio espositivo e quali affinità hai riscontrato con artiste che provengono da contesti sociali e generazionali sensibilmente differenti dai tuoi.
Qualche tempo prima che Angela mi proponesse di far parte di Partiture Illeggibili, stavo portando avanti una ricerca su Mirella Bentivoglio, sul suo lavoro da curatrice e non da artista. Lì incontrai il lavoro di Greta, rimasi colpita dall’eleganza del segno, sembrava un lavoro contemporaneo. Conobbi Greta la sera dell’inaugurazione, approfittai di un momento di calma per farle delle domande, le chiesi cosa pensava di questa idea di “non tempo”: lei rispose, a conferma della mia tesi, che si è sempre rifiutata di datare i suoi lavori.
Meraviglioso, non trovi?
Leila, ahimè, non ho avuto modo di conoscerla, ho visto i suoi lavori solo a giochi fatti. C’è una passione comune, il riferimento all’acqua e al cielo, le due più importanti forme di infinito.
La galleria Labs Gallery è una chiesa sconsacrata alta quasi sei metri; io ho dovuto montare le tre installazioni qualche giorno prima, c’è stato bisogno di un ponteggio e la stanza doveva essere libera. La mostra completa l’ho vista solo il giorno dell’apertura. I lavori dialogano tra di loro in maniera sorprendente, questo sottolinea la capacità della curatrice, Angela Madesani, e del titolare di Labs, Alessandro Luppi.
Devi pensare le mie installazioni sospese nel vuoto, non solo letteralmente – come vuole dire la parola stessa – ma anche come fattura organica. I miei lavori sono trasparenti, non invadono ma chiedono presenza.
I lavori di Greta e Leila percorrevano le pareti, i miei lo spazio e creavano un percorso. In entrambe c’è sicuramente un approccio al segno che si ripete e crea dei mondi immaginifici o delle forme o dei paesaggi.
Con quell’azione del bucare la carta, l’argilla, il gesso, io compongo – metto insieme pezzettini piccoli, fino al punto in cui sento equilibrio. Cerco di scorgere l’infinito attraverso l’infinitamente piccolo.
Angela Madesani, curatrice del progetto Partiture illeggibili, ha seguito in diverse occasioni il tuo fare espositivo. Come si sviluppa il vostro rapporto e quale importanza ha avuto per l’evolversi della tua ricerca estetica?
Ho conosciuto il lavoro di Angela nel 2014, durante una collettiva in un palazzo in provincia di Bergamo, ero stata colpita dall’insieme delle opere, da come si rafforzavano a vicenda e dalla sensibilità raffinata con cui erano state accostate. Lì decisi di seguire il suo operato e cercai di conoscerla. Fu un collezionista di Bologna a presentarci, durante Arte Fiera. Cominciai a inviarle mail con i miei lavori; volevo prima di tutto avere un suo parere. Mi ricordo che il primo fu: “lavoro curioso” e io pensai <finalmente qualcuno che non usa la parola “interessante”>.
Da lì in poi ha curato tutte le mie personali, Angela è una donna di grande cultura e perspicacia; il confronto con lei è sempre altissimo. Forse i due momenti più importanti sono stati: il talk tenuto durante WopArt, entrambe ci siamo raccontate al pubblico senza canovaccio e lì si era palesata la stima che nutriamo una per l’altra, e la mostra personale da lei curata alla NM Contemporary di Montecarlo nel 2019, Are my eyes distracting my hearing?. Nel testo di quella mostra cita due artisti che io conoscevo poco: James Lee Byars e Roman Opalka; lì mi ha aperto un mondo. Ha visto un aspetto del mio lavoro che per me era ancora secondario, lei l’ha messo al primo posto. A volte noi artisti siamo così dentro le nostre opere che abbiamo bisogno di altri occhi per guardarle. Infine è Angela che ha fatto il mio nome ai referenti della Fondazione VAF. Oggi il video Confine (2019) è stato comprato, ed è entrato a far parte della collezione del Mart.
Le opere proposte a Bologna possiedono una delicata necessità installativa, che attiva lo spettatore in differenti modalità. Quanto è per te importante la relazione con il pubblico e come esso influenza la tua ricerca artistica?
Una delle artiste che ha segnato il mio percorso è Louise Bourgeois, l’ho studiata in lungo e in largo e non sto qui ad annoiarti con cose che sono state già dette. Ho letto i suoi scritti privati quando ero in Accademia e lì compresi come creare sia una necessità interna tua e solo tua. Poi, però, quasi poco prima della fine, è importante uscire da sé così da guardare l’opera da fuori. Questo oggi è il mio metodo! e quando mi pongo come pubblico l’opera si manifesta nella sua essenza. Quindi sì, il rapporto con il fruitore è essenziale. Guarda i disegni astratti di Cielo e Acqua, per esempio. L’anno scorso durante l’inaugurazione a NM Contemporary ho dialogato con una bambina e le ho chiesto cosa vedeva in quei segni, aveva iniziato a immaginare una storia diversa dalla mia, ma questo non è importante.
Ogni installazione presente alla Labs Gallery chiede attenzione, in tutte e soprattutto nell’ultima nata, Al centro della Luna, c’è un lavoro sul tempo, 323 sfere fatte a mano sono quasi un anno. Quando creo cerco di portare la mia mente in un mondo astratto in cui il tempo non esiste, di contrappunto chi le osserva vive questa sensazione di perdita. Voglio creare un buco vuoto nella tua realtà, spezzare il tuo ritmo, spostarti per un attimo in un altro emisfero. Il centro della luna è un luogo metafisico che ho creduto di raggiungere. La sfera è una forma che evoca l’eterno ritorno, non c’è una fine. Così anche i miei lavori giocano su questa idea di non finito.
In occasione della tua mostra personale Are my eyes distracting my hearing?, importante è stato il contributo sonoro di Andrea Ferrario, docente di tecnologia del suono all’Accademia della Scala di Milano. Come la componetene acustica dialoga con le tue opere e quale importanza ha la musica nel tuo fare?
Il suono è una vibrazione che si propaga nell’aria, è più vicino allo spirito che al corpo. È questo che mi attrae. Con Andrea ci siamo conosciuti due anni fa, io non avevo competenze tecniche ma sono andata da lui con un’idea, era così chiara nella mia testa! Era un lavoro sulle voci. Sono intrigata dalle voci e dai suoni che producono le varie lingue. Abbiamo iniziato a lavorare montando insieme l’installazione sonora I Confini di Babele, lavoro tutt’ora inedito a cui tengo molto. Un’installazione sonora pubblica che prende ispirazione da un libro, le lingue impossibili, di Andrea Moro, un linguista e neuro scienziato che studia il rapporto tra linguaggio e cervello. È stato difficilissimo all’inizio, lui ha dovuto spogliarsi un po’ delle sue competenze tecniche e io ho dovuto imparare alcuni processi di composizione. Finito quel lavoro avevo iniziato a domandarmi come comunicano le altre specie animali, soprattutto cosa succede negli abissi, come comunicano tra di loro i cetacei e i mammiferi. Così sono entrata in contatto con il Centro di Bio acustica di Pavia. Per il video Constellation, presente durante Are my eyes distracting my hearing?, abbiamo creato un montaggio sonoro composto da suoni marini e altri facenti parte della mia libreria. Io non uso taccuini, ma porto sempre con me un tascam e registro la realtà. Le voci degli esseri umani o degli animali sono tracce presenti e autentiche. La nostra immagine sta perdendo questa autenticità, forse sulla carta d’identità non ci dovrebbe essere la nostra foto ma la nostra voce. Il fatto di non aver studiato rende tutto più interessante, perché io arrivo da Andrea con delle idee che per lui sono sorprese, io non faccio differenza tra una nota, un rumore, un suono, mi servono tutte queste realtà per creare.
Partiture illeggibili è realizzata a Bologna. Quanto una città può influenzare le tue scelte espositive e a quali nuovi progetti stai lavorando?
La prima cosa a cui penso quando progetto una mostra è lo spazio in cui va il lavoro, l’esposizione soprattutto per chi lavora con l’installazione è determinante. Di solito vado a installare personalmente, e così è successo per Bologna. La città entra in secondo piano a meno che non si tratti di un lavoro pubblico. Per esempio, uno dei miei grandi desideri sarebbe portare I Confini di Babele a Tel Aviv ed esporre l’installazione sonora fuori il Tel Aviv Museum of Art. Speriamo che questa intervista arrivi a Nicola Trezzi e che lui possa aiutarmi. Tel Aviv è una città splendida che colpisce sempre la mia fantasia.
Il nuovo progetto a cui sto lavorando ha componenti magiche. È un lavoro che porto avanti da più di un anno: si tratta di un video e di un’installazione in cui il protagonista è la luce. Nel video, dal titolo Siderum – che sto iniziando a montare in questo momento – ho cercato una performance naturale. È stato un lavoro molto difficile, quasi folle direi. Sembrava un’azione impossibile, e a un certo punto in aiuto sono arrivati i fisici del INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) di Catania. Per una serie di casualità mistiche, mentre io cercavo la manifestazione di una luce loro, sott’acqua dalle parti di PortoPalo di Capo Passero, cercavano il passaggio del neutrino. Una particella subatomica che va più veloce della luce e che quando entra in contatto con l’acqua si rende visibile attraverso degli strumenti appositi. Non sto qui a svelarti tutti i risvolti ma loro hanno aiutato me e io ho aiutato loro prendendo in carico un materiale scaduto con cui creerò l’installazione che accompagnerà il video. Scusami se sono terribilmente astratta su questo lavoro ma è il mio modo di proteggerlo dato che non è ancora nato.
Questo contenuto è stato realizzato da Marco Roberto Marelli per Forme Uniche.