Antonio Rovaldi, “Il suono del becco del picchio”, 13 febbraio-26 luglio 2020, Accademia Carrara/Ala Vitali, Bergamo. RIAPERTURA POST LOCKDOWN: venerdì 22 maggio 2020
Dai margini, le parole. Dalla fine, la gentilezza in bilico su un guardrail in bianco e nero. Silenzi. Il lungo fruscio del peregrinare in una lontanissima idea di New York, scortati dal ritmo dolce e martellante del becco del picchio. Un’immagine che si riverbera fino al 26 luglio nelle sale dell’Accademia Carrara di Bergamo e che riecheggia nel titolo della mostra di Antonio Rovaldi “Il suono del becco del picchio”, appunto. L’esposizione, a cura di Lorenzo Giusti, Direttore della GAMeC, insieme a Steven Handel, Visiting Professor di Ecologia alla Graduate School of Design di Harvard e Francesca Benedetto, Design Critic, rappresenta il secondo capitolo del macro progetto End. Words from the Margins, New York City, presentato lo scorso novembre all’Università di Harvard, grazie al quale l’artista ha vinto la quinta edizione dell’Italian Council. Il progetto presenta la metropoli più iconica al mondo dal punto di vista delle sue periferie e dei bordi estremi dei suoi cinque boroughs -Manhattan, Brooklyn, Queens, The Bronx, Staten Island– lungo i quali Rovaldi ha camminato, e restituisce l’esperienza dell’artista in una serie fotografica capace di rappresentarne la complessità. Immagini in grado di presentare una New York periferica e meno conosciuta, con le sue vaste lagune in prossimità dell’oceano, gli svincoli autostradali, le zone incolte e non facilmente accessibili.
Un elogio del cammino, dell’attraversamento fisico degli spazi più marginali, e si fonda sull’idea che proprio da questi confini –non solo geografici, ma anche politici e antropologici– possa svilupparsi una rinascita consapevole della società. Oltre alle cinquanta fotografie in bianco e nero in stampa analogica che occuperanno le pareti dello spazio espositivo, la mostra presenta alcune mappe geografiche realizzate dall’architetto paesaggista Francesca Benedetto che mostrano le trasformazioni urbanistiche, geografiche e meteorologiche della città, accanto a un’installazione sonora e a due sculture in bronzo realizzate appositamente per la mostra. Fulcro del progetto è The Sound of the Woodpecker Bill: New York City, edito da Humboldt Books, pubblicazione che sarà presentata per la prima volta in Italia mercoledì 26 febbraio 2020 alla Fondazione Sozzani di Milano.
L’elogio del cammino, l’immagine fotografica, la dilatazione dello spazio. Tre cardini del tuo lavoro. Come si conciliano nella tua opera e in quale maniera costruiscono una sequenza, una narrazione, un romanzo visivo… Quali altri fattori, elementi, completano l’opera… prendere la distanza da un luogo…
Lo sforzo fisico – camminare una distanza – in relazione all’immagine fotografica e lo spazio attraversato sono pratiche che ho sempre messo a confronto nella mia ricerca, fin dalle origini del mio percorso. Mi sono sempre rivolto alle immagini, alla fotografia, cercando un dialogo profondo con il luogo specifico di indagine. Non mi interessa la fotografia come singolo scatto, piuttosto penso alla pratica fotografica come a una catena di pensieri che si affiancano, si sovrappongo, si accompagnano completandosi, per similitudine o per contrasto; una sorta di geologia personale dello sguardo, riferita non solo alla geografia attraversata ma anche, e soprattutto, alla mia biografia.
Prendere la distanza da un luogo è, per me, praticare un ritorno. Tornare sui luoghi significa generare un ricordo, una memoria lontana e vicina al tempo stesso. Solo attraverso il ricordo credo sia possibile un presente consapevole rispetto alla direzione che stiamo seguendo. Ovviamente procedere in avanti vuol dire allenarsi al praticare l’errore, la deviazione, l’imprevisto. Il tempo del camminare è un tempo perfetto, antichissimo quanto l’uomo, è un tempo geologico perché camminando si può sentire l’eco dei nostri antenati e della vita prima di loro…
Perché e cos’è, cosa rappresenta, New York per te e per il tuo lavoro? Che città è quella raccontata nel tuo peregrinare fotografico? Può partire da qui una rinascita consapevole della società?
Ho trascorso molti periodi a New York City, a cominciare dal 2005 si sono succeduti diversi capitoli della mia vita artistica. Nel 2016 ho iniziato a sentire l’esigenza di esplorare una città che conoscevo meno, lontana dai percorsi quotidiani che hanno caratterizzato i periodi precedenti, e così ho cominciato a spingermi a piedi verso zone più marginali, meno accessibili: luoghi spesso stretti da reti che delimitano e chiudono molte zone della città, spazi di difficile accesso anche agli abitanti stessi di molti quartieri. Il waterfront di New York City ha sempre rappresentato un territorio particolare di studio per leggere i cambiamenti della città nel tempo. La geografia della città suggerisce analisi complesse di un territorio che dovrebbe, a mio parere, essere preso come esempio per alimentare buone pratiche rispetto all’ambiente, alle sue molteplici modalità di ascolto. Oggi più che mai.
Camminare intorno ai margini di New York City mi ha permesso di scoprire non solo una città che non conoscevo, ma anche di approfondire diverse questioni legate alla mia pratica artistica, sempre in relazione a un filone di autori (fotografi, artisti, scrittori, paesaggisti, ecc…) a cui mi riferisco, dichiarandone un’appartenenza di intenti, direzioni e punti di vista. Ecco perché per me è importante rendere chiaro il debito che ho con autori che, prima di me, hanno seguito direzioni simili e/o parallele, ed ecco perché amo condividere con altri autori percorsi multidisciplinari, perché è attraverso lo sguardo degli altri che mettiamo meglio a fuoco il nostro.
Che “suono” ha il becco del picchio? Che suono hanno le “parole ai margini”?
Il suono del becco del picchio è un suono bello, che genera un ritmo, una ripetizione. Il suono del picchio ha accompagnato spesso le mie camminate verso la fine della città. Per me New York City è anche quel suono. Un suono della natura che pervade la città quando ci mettiamo in una dimensione di ascolto che prevede una sosta durante una camminata. Il suono del picchio lo senti da lontano, ti attira perché non sai mai esattamente da quale tronco di albero provenga. Poi capita che quell’uccello, all’improvviso, si mostri per un istante prima di scomparire, ricordandoci che siamo parte di un organismo complesso, spesso messo a repentaglio dalla stupidità umana.
Per ascoltare il suono della città è necessario un allontanamento dal suo “centro”. Più ti allontani da New York, più essa ti appare. New York è un organismo vivente, proprio come un corpo umano, attraversato da liquidi e sorretto da un’ossatura. La città è un corpo con canali sotterranei che la attraversano. Gli animali che a New York si incontrano lungo il cammino ci parlano di tempi e di suoni geologici. Il presente della città è un rimbombo continuo di glaciazioni antichissime, e l’acqua che scorre tutt’intorno alla città restituisce al suo volto lineamenti femminili. New York è una donna molto complessa, inafferrabile e per questo davvero eterna, anche se a serio rischio di sprofondamento.
Come si struttura il progetto e come si traduce nel libro? Qual è l’obiettivo primario del lavoro intero, quale il suo fulcro? Che sviluppi avrà, nella città di Bergamo per esempio…?
Sicuramente il fulcro è la pubblicazione The Sound of the Woodpecker Bill: New York City, un progetto editoriale che mi ha tenuto concentrato per oltre tre anni in forma di pensieri, letture dedicate, infinite camminate e altrettanti ritorni a casa nella città in cui vivo ora: Milano.
Senza questa dimensione del ritorno nel mio studio di Milano, non sarei riuscito a portare a compimento questo progetto. Il libro è una sintesi di una geografia esperita direttamente sul territorio e di una geografia ripercorsa intorno ai margini del mio studio, una continua alternanza tra sguardo panoramico – a volo d’uccello – e uno sguardo più intimo, rivolto alla mie specifiche pratiche: la fotografia in relazione allo sforzo fisico, al suono, alla scultura come testimonianza di una presenza effimera nei luoghi. Partire e ritornare, ritornare e ripartire.
L’obiettivo del libro e del progetto è quello di mostrare un volto di una città meno conosciuta, forse più grigia e sfumata di quella più nota, suggerendo anche una lettura del paesaggio come pratica autobiografica, perché è solo partendo da noi come singoli che possiamo capire la città come un organismo formato da comunità diverse ma costantemente in dialogo tra loro. Se riuscissimo a capire l’importanza dell’appartenenza alle altre culture, cominceremmo ad abbattere barriere, reti metalliche, confini che non esistono nella realtà geografica originaria. Discorso complesso, qui, ora…
Scultura, suono, fotografia, installazione. Com’è stata concepita la mostra negli spazi della Accademia Carrara di Bergamo? Quali le proficue e osmotiche collaborazione condensate in mostra?
La mostra allestita nell’Ala Vitali dell’Accademia Carrara di Bergamo è la tappa più esaustiva di una serie di mostre cominciate nel 2016 e che spero possa continuare nel tempo con forme differenti.
Il suono del becco del picchio è un progetto multidisciplinare che ha coinvolto diversi autori e il dialogo con loro, a partire da quello con Francesca Benedetto – architetto paesaggista che ha riletto il mio viaggio attraverso le sue mappe–, che ha spalancato finestre verso altre direzioni.
Con il Direttore della GAMeC Lorenzo Giusti e il suo staff – che ringrazio moltissimo – siamo riusciti a vincere la V edizione del bando Italian Council, che ha permesso di completare alcune tappe fondamentali del progetto: la pubblicazione realizzata con Humboldt Books, la prima mostra al Dipartimento di Architettura del Paesaggio della Harvard Graduate School of Design, e molto altro che verrà…tra Italia e America.
Sono molto soddisfatto del risultato finale di questa mostra, che ha trovato un giusto equilibrio tra i diversi linguaggi utilizzati: la fotografia in relazione al camminare, la scrittura, il suono come racconto che accompagna l’osservatore dentro e fuori la fotografia, le mappe che introducono un tema a me molto caro, quello del desiderio della rappresentazione del territorio all’interno di un disegno o al suo esterno. Le mappe, appunto. Questa mostra è il risultato di un percorso durato anni e sono felice di essere riuscito a raccontarlo attraverso una geografia composta da punti che si richiamano, un po’ come i sassolini di Pollicino lungo un sentiero: le singole immagini si collegano come punti di una linea che ci aiuta a ritrovare la via verso casa… prima che faccia troppo buio. Con la città di Bergamo cercheremo di seguire di nuovo quei sassolini, per raccontare la complessità del suo organismo.