Il 18 febbraio 1857 nasceva a Lipsia il grande incisore simbolista Max Klinger. Ed esattamente 130 anni fa egli eseguiva un capolavoro irripetibile, riportando L’Isola dei morti di Arnold Böcklin su carta tramite la tecnica dell’acquaforte e dell’acquatinta.
Oggi sono solo i curiosi e gli appassionati sanno apprezzare l’alchimia dell’incisione, dove nell’atto finale esecutivo l’autore diventa artigiano, eseguendo lui stesso la stampa tramite il torchio a stella, tirato a mano. Di solito usa firmare le prime prove numerandole con cifre romane; un’altra decina di fogli firmati li sigla con numeri arabi. La matrice può essere su legno, su pietra, su lastra di ferro o su linoleum; una volta definita la quantità dei fogli stampati, viene biffata, ossia azzerata con un vigoroso scarabocchio che ne rende impossibile la riproduzione. Pertanto, quando i fogli stampati non superano le dieci copie, possono essere considerati come pezzi unici. È dunque giunto il momento di restituire alla memoria le opere su carta dei maestri Simbolisti di un tempo lontano. Di gran moda un secolo e mezzo fa, operavano nell’area mitteleuropeo, francese, italiana e inglese; ma con l’avvento delle avanguardie del ‘900, sono finiti nel dimenticatoio.
Alberto Martini, Max Klilnger, Albert Welti, Alois Kolb, Edmond Van Offei Hermann, Charles Guérin, Henri Hèran, Tyra Kleen, Francesco Nonni, Auguste Donnay, Carlo Gottlieb Theodor von Hartenkampe, Carlos Schwabe, Koloman Moser, Max Svanbinski, Otto Greiner, Paul Herrmann, Karl Schmid Helmbrechts: il catalogo è questo. Le loro opere eseguite all’acquaforte, acquatinta, xilografia e litografia, rappresentano generalmente atmosfere misteriche di grande finezza. In Italia i loro fogli sono archiviati e custoditi come reliquie nella Collezione Emanuele Bardazzi di Firenze. In questa raccolta notevolissima quanto esauriente va sottolineata la presenza dell’Isola dei Morti incisa da Max Klinger, che ho più sopra citato in coincidenza con la sua data di nascita.
Rimane il quesito se è ancora valida l’etichetta sprezzante assegnata centocinquan’anni fa ai Simbolisti, in quanto considerati “…visionari dalla tensione atmosferica, che acquista valore di sogno sfarzoso verso l’avventura, il gioco estetico e l’Oriente dei barocchismi suggestivi“ (Guido Ballo, 1968). In realtà erano autori inquieti, che evocavano immagini oniriche, e non a caso: in quegli anni L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud aveva già ribaltato molte certezze della psichiatria.
Ma Freud, e Jung, e Adler, non hanno minimamente scalfito le certezze dei nostri storici dell’arte italiana antica e moderna. Per loro, di un’opera d’arte, bisogna decodificare forma e contenuto sulla base di precisi riferimenti storici e comparativi, e non certo su teorizzazioni psicologiche. Con una metodologia meno ragionieristica potrebbero arricchire il loro repertorio interpretativo, apprezzando le motivazioni profonde che guidano la mano di un artista. A questo proposito, E.H. Gombrich, in Freud e la psicologia dell’arte, ha già offerto un convincente contributo teorico a tutti i colleghi che considerano l’indagine della psiche come una scienza inesatta, e quindi non pertinente alla loro professione di storici.