L’amore e il tempo nel cinema di Kim Ki-duk attraverso la lente della filosofia, in libreria il volume di Riccardo Panattoni
«Come accade per tutto ciò che si ama non sempre è possibile dirne esattamente il perché» (R. Panettoni, Kim Ki-duk)
È uscito per la collana Sillabario (edita da Orthotes) un volume firmato da Riccardo Panattoni sul cinema di Kim Ki-duk, maestro del cinema coreano autore di film acclamati dalla critica e amati dal pubblico come Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Ferro 3 – La casa vuota e Pietà (Leone d’Oro a Venezia 69).
Per capire il carattere di questo libro va prima chiarata la natura della collana a cui appartiene, ogni Sillabario presenta in poche pagine (o comunque non tantissime) un grande classico contemporaneo, dalla letteratura al teatro, dal cinema alla filosofia. Ma a trattare di ogni argomento non è mai uno studioso del settore, ma un osservatore esterno. Abbiamo quindi lo psicanalista che scrive di filosofia (Franco Lolli su Günther Anders), il filosofo che scrive di letteratura (Carlo Sini su Dante) e, in questo caso, il filosofo che scrive di cinema.
Nasce così questo testo che affronta in maniera inedita e stimolante il lavoro di un regista molto amato anche dal pubblico cinephile nostrano, attraverso la lente e la filosofia il tempo e l’amore riaffiorano prendendo così la parola attraverso alcune istantanee dei suoi film.
Panattoni, attraverso sei immagini – un fotogramma scelto da altrettanti film di Kim Ki-duk, crea un percorso che ci guida attraverso la poetica del cineasta coreano. Il filo rosso che lega questa ideale collage – questo arcipelago di immagini – è l’amore.
L’assunto da cui parte il percorso dell’autore nasce dal fatto che guardare un film significa misurarsi con il fatto che di quella visione terremo con noi soltanto alcuni fotogrammi.
Il primo fotogramma appartiene al film d’esordio del regista, Crocodile (1996), e la dissertazione dell’autore prende il titolo di “senza respiro”.
Un uomo e una donna sono immersi nell’acqua, la donna ha gli occhi chiusi, la testa abbandonata sulla spalla nuda di lui. L’uomo sembra abbracciarla con un gesto dimenticato, racchiuso in un punto che non compie quel gesto, piuttosto lo sospende. In quel punto, in quell’immagine, non vediamo un uomo e una donna salvi nell’amore, ma un tempo nel tempo, un tempo in cui quell’uomo e quella donna sono per sempre l’uno accanto all’altra.
In questo libro Panattoni con la sua analisi dà voce alle assenze che costellano i film di Kim Ki-duk, la sua cinematografia è difatti costellata da pellicole in cui la fa da padrone un placido mutismo – mai come costrizione – lasciando “parola” al potere delle immagini, dell’icona. In Moebius, per esempio, non ci sono dialoghi. Per definizione non può essere definito un film muto (c’è un commento sonoro), ma non c’è presenza verbale. Nel testo di Panattoni spuntano ovviamente anche Barthes e Deleuze, il tempo (filosofico) diventa infatti un elemento cardine per la percezione di queste immagini che risultano sospese, in un limbo incerto tra l’avanzamento e il ritorno che appartiene al regno della memoria.
Dopo Crocodile, la seconda immagine, “sospesi, là, tra cielo e terra”, è tratta dal film Birdcage Inn, pellicola del 1998: la terza, “essere sognati dalla vita” , dal film Ferro 3 – La casa vuota, Leone d’Argento a Venezia 61, correva l’anno 2004. Si prosegue con un fotogramma da Soffio del 2007, “allo specchio dei tuoi occhi vorrei apparire così”, per poi passare a Time del 2006, “ti ho cercata proprio lì dove non eri mai stata”.
Sesta e ultima immagina da Pietà, 2012. In questo caso non si tratta di un fotogramma ma dello scatto promozionale usato anche per la locandina del film.
Le immagini scelte non sono guardate dal punto di vista del linguaggio, non sono “lette” attraverso un’analisi testuale, non c’è un’indagine tecnica o estetica (che sarebbe propria un critico cinematografico – o di un semiologo – e non di un filosofo), ma bensì, come spiega l’autore: «Quello che in effetti vorrei far emergere è come queste immagini siano legate alla lieve percezione di qualcosa che ci ha colpiti, non solo in modo indefinito, ma senza che si giunga mai a stabilire se qual- cosa sia effettivamente accaduto: anche quando ne abbiamo la netta percezione, non sappiamo dirne bene il perché, nemmeno a noi stessi».