Il museo temporaneo Sex Workers’ Pop-Up vivrà per una sola settimana a New York (10-16 marzo). Ma il suo messaggio, incentrato sulla dignità del sex work e sui diritti dei sex worker, sembra poter scuotere le coscienze per molto tempo.
Il sex work è un argomento scivoloso e controverso, ancora imbrigliato nei giudizi superficiali di chi non conosce o di chi intende strumentalizzarlo. In particolare, le stigmatizzazioni nei confronti di chi sceglie liberamente di disporre di parti del proprio corpo per farne una professione sono tutt’ora riduttive e, nella maggior parte dei casi, fortemente critiche. Le questioni che concorrono a formare una così resistente stratificazione di (pre)giudizi morali sono numerose – religiose, etiche, culturali – e probabilmente non estranee nemmeno a chi è disposto ad accettare pratiche come la prostituzione alla stregua di altre attività economiche. Ipocrisia e ottusità si miscelano dunque nell’approccio refrattario e insistentemente dispregiativo cui i sex worker vengono categorizzati. Resistono, per esempio, credenze per cui questi siano portatori di malattie (su tutte l’HIV), siano persone in difficoltà, siano privi di sentimenti o soggetti incompatibili con il resto della società.
Se infatti i problemi legati all’aspetto legale (in molti stati, come il Sud Africa, il sex work è punito dalla giustizia – ma solo per chi lo esercita, non per chi ne fruisce) e ai diritti umani (la condizione di emarginazione sociale, maggiormente quando si tratta di transessuali, è pressoché totale) rimangono priorità da affrontare ogni giorno, è l’intero immaginario costruito attorno a questo mondo ad impedirne una completa liberalizzazione. La stessa (presunta) assunzione nel linguaggio comune di un termine privo di caratterizzazioni negative come Sex Work (anziché prostituzione) implica una difficoltà da parte di tutti di slegare la professionalità del lavoro sessuale dalla svalorizzazione e denigrazione che spesso viene attuata. In particolare il sex work sembra non trovare modo di recuperare la dignità di cui è stato privato: perché, per esempio, viene sempre inteso come una scelta obbligata, necessariamente negativa?
Anche chi accetta (più o meno) di buon grado che una persona possa sostentarsi lavorando con il sesso, il più delle volte riesce a giustificarlo solo come soluzione transitoria. Nella logica binaria di appartenenza e non appartenenza con cui spesso la nostra società ragiona risulta impossibile scindere il sesso a pagamento da una condizione di sfruttamento, di inferiorità, di pericolo. Per questo il sex work può anche essere accettato, ma solo per poco tempo, in situazioni di estremo bisogno ed esclusivamente quando può essere trampolino professionale (e sociale) per cambiare la propria vita. Al contrario molti soggetti scelgono liberamente una carriera nel mondo del sesso senza che questa possa ledere alla loro salute, alla loro vita sentimentale o al loro ruolo nella comunità. Può essere frutto di convenienza economica, di una forte motivazione personale, di flessibilità nel lavoro. In molti casi il sex work rappresenta una scelta di vita non dissimile dalle altre e come tale, se non compresa, merita quantomeno di essere ascoltata.
Proviamo allora a volgere lo sguardo verso New York, dove il 10 marzo ha inaugurato Sex Workers’ Pop-Up. Il museo temporaneo è nato con l’idea di supportare la campagna globale che ormai da alcuni decenni si batte per i diritti dei sex worker. Ma soprattutto – grazie alle 50 opere realizzate da 22 artisti, 17 dei quali hanno a che fare direttamente con il sex work – permette di penetrare nella dimensione umana dei soggetti che attraverso il loro corpo lavorano. L’arte, come purtroppo non sempre riesce a fare, propone una visione libera da preconcetti e volta ad apprezzare le sfumature e le ragioni di scelte che possono apparire impensabili.
La mostra ha messo così in evidenza sia situazioni complesse e, in questo caso, anche pericolose – come un’installazione che presenta gli strumenti del mestiere delle donne transessuali e le loro esperienze di lavoro per strada; una serie di fotografie che mostra come le sex worker a New York siano state costrette a spostarsi a causa della gentrificazione di un quartiere; un video che racconta alcune prostitute del Sud L’Africa condividere le proprie esperienze in un cortometraggio intitolato Sweat – che opere d’arte in grado di sottolineare l’estrema consapevolezza (e sicurezza) di alcuni operatori del settore. Di particolare impatto e spessore concettuale appare, per esempio, Our Blessings in the Sand di Pluma Sumaq. L’installazione replica una tradizione religiosa Ifà dove vengono rappresentati il fiume e l’oceano come simbolo di abbondanza spirituale; l’artista vi associa i nomi di alcuni sex worker statunitensi e delle monete, in modo da sottolineare come la modalità attraverso cui un individuo sceglie di mantenersi non ha nulla a che fare con la propria profondità di spirito.
L’ipocrisia con cui spesso ci si rivolge a determinate dimensioni è esplicitata dall’opera di Jacq the Stripper – I Just Want the Same Rights as the Girl Who’s Famous Because of Her Brilliant Momager and Sister Who Made Cute Lil Sex Tape – che mette a confronto due post su Instagram. Uno rappresenta proprio l’artista, fotografata nell’atto di coprirsi il seno, mentre il secondo riporta la scultura in topless di Kendall Jenner realizzata da Maurizio Cattelan. Se il primo è stato censurato dal social network, il secondo ha ricevuto addirittura il like dell’account ufficiale della piattaforma. Qual è la ragione di questa differenza di trattamento? Non è impossibile leggerci una certa penalizzazione discriminatoria dettata non solo dal pregiudizio, ma soprattutto dalla condizione socioeconomica dei soggetti in questione.
Questa imperterrita marginalizzazione può essere intesa, in casi estremi, come veicolo per situazioni pericolose, non viceversa. Spesso i sex worker, soprattutto quando donne, rischiano la loro incolumità a causa dell’indifferenza della società. Per questo l’artista e attivista Molly Crabapple propone alcune illustrazioni di sex worker intente a manifestare per le strade di New York; per questo Kisha Bari ha realizzato una serie di scatti di donne e transessuali costretti ad esporsi a situazioni di pericolosa criminalità o di ingiustificata violenza repressiva da parte della polizia.
Nel complesso l’esposizione ha il merito di far luce su un segmento messo ai margini dalla società, costretto ad operare nell’ombra. Intende da una parte provocare e dall’altra proteggere questi soggetti, in un abbraccio che è artisticamente rappresentato dagli ombrelli appesi al soffitto. Questi, oltre a creare una soffusa luce rossa non estranea all’argomento, si legano alla tradizione del movimento per i diritti dei sex worker. Durante la Biennale di Venezia del 2001, l’artista sloveno Tadej Pogačar ha infatti messo in scena un Padiglione delle Prostitute, con alcuni sex worker che marciavano per le strade di Venezia portando ombrelli rossi per poi radunarsi nei Giardini per il Congresso mondiale dei sex worker.
Il rosso simboleggia la bellezza e l’ombrello simboleggia forza e protezione
Daveen Trentman, Curatore della mostra
Forse non riusciamo ancora a condividere le motivazioni che spingono un soggetto a lavorare col sesso, ma di certo possiamo comprendere il loro desiderio di protezione. E proteggere, almeno in parte, significa accettare.