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La ricostruzione, la cultura e le librerie. La realtà e che siamo senza un immaginario futuro

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“Si tratta solo di populismo”: questo è lo slogan piratesco di diversi commentatori culturali rispetto alla decisione di permettere alle librerie di riaprire il 14 aprile. Ma se vogliamo continuare ad adottare questa retorica sbagliata della “guerra” nei confronti del Coronavirus allora dovremmo ricordare meglio cosa avvenne in passato. Perché una delle caratteristiche principali del populismo è quello di vivere in un eterno presente, senza ricordi e radici.

“Non potemmo che piangere” ricorda Nicola Benois, scenografo del Teatro, “dall’inizio della guerra facevamo spettacoli per militari e feriti, da quel momento il nuovo grande ferito era la Scala”. Partiamo da qui, da questa frase pronunciata dopo i bombardamenti del 15 e 16 agosto del 1943. Dicevo della retorica della guerra che spadroneggia ovunque e che è stata e continua ad essere utilizzata come artificio retorico da tutti i media.
Questa distorsione linguistica è vecchia quanto il mondo: “nel Medioevo il lebbroso era un soggetto sociale nel quale diventava visibile la corruzione; un modello, un emblema di decadimento. Non c’è niente di più punitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è invariabilmente moralistico.” (Susan Sontag). Noi, in Italia, abbiamo avuto qualche esempio nell’utilizzo delle malattie come giudizio morale, si prenda in considerazione il diffuso motto da stadio “Napoletani colerosi“. Ad oggi una moralizzazione di questo virus non è avvenuta ma comunque è sorta una associazione umana e sociale piuttosto pericolosa: “muoiono solo i vecchi“. Un’altra versione ce l’ha fornita il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump con “il virus cinese”. Un’associazione virus-popolazione particolarmente razzista che ha avuto e potrà avere risvolti piuttosto pesanti nei confronti delle comunità orientali presenti in occidente. Pensiamo al caso italiano: appena il virus è esploso in Cina negozi, ristoranti e attività gestiti o con personale orientale si sono svuotati immediatamente.
Non ho la sfera di cristallo, il linguaggio si modifica e cambia in continuazione, ma non credo sia folle pensare che d’ora in poi il Coronavirus verrà associato agli anziani o alla popolazione orientale con tutte le sfumature del caso.

 

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Ma torniamo alla frase di Nicola Benois: “dall’inizio della guerra facevamo spettacoli per militari e feriti“. La differenza fattuale tra la nostra pandemia e la guerra. I nostri malati sono isolati, muoiono da soli. I feriti e i militari in congedo momentaneo venivano curati anche con la musica e gli spettacoli della Scala. E torniamo a noi, ad oggi, sembra quasi assurdo e ridicolo scriverlo o anche solo pensarlo: noi che siamo chiusi in casa da ormai più di un mese non abbiamo la stessa fortuna di quei militari e di quei feriti. Perché la cultura è stata totalmente bloccata. Abbiamo film in streaming, abbiamo i libri. Ma non è assolutamente abbastanza. Noi che con questo magazine ogni giorno vi abbiamo raccontato di mostre, fiere e spettacoli teatrali siamo orfani, come voi del resto. Perché la cultura e la sua fruizione sono da sempre un fenomeno collettivo che va condiviso, esperito e vissuto anche fisicamente. Detto questo va comunque chiarito: la guerra è un’altra cosa, molto, molto, molto peggio di quello che stiamo vivendo noi in questo periodo.

La Scala fu uno dei primissimi edifici ad essere ricostruito a seguito della Seconda Guerra Mondiale e del sistematico bombardamento da parte delle truppe anglo-americane di tutti gli edifici culturali a Milano. Il senso di quell’atto criminale era di frantumare l’identità culturale e psicologica dei milanesi. La risposta fu quella di dare la precedenza proprio alla cultura: in un paese letteralmente in macerie nel maggio del 1946 la Scala riaprì, nel 1947 fu il turno di Palazzo Reale e del neonato Piccolo Teatro, sorto quest’ultimo nell’edifico che fu sede della Legione Autonoma Ettore Muti: la frangia più estrema del fascismo milanese.

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Qual è il senso allora di riaprire le librerie? Quello di emettere una vagito simbolico. Inutile? Probabilmente, ma forse non del tutto. Tutte le istituzione culturali rimarranno chiuse molto più a lungo di qualsiasi altra azienda. Del resto in un paese dove produrre armi e armamenti è ritenuto un’attività necessaria, dove si parla solo di far ripartire la produzione, nessuno al momento sta cercando di immaginare come ridarci l’appartenenza culturale: gli edifici distrutti furono ricostruiti; la pluralità di teatri, gallerie, fondazioni e istituzioni che lentamente si stanno spegnendo, di cui nessuno vedrà le macerie per strada, ad oggi sono abbandonate.
Per riaprire le librerie non ci vuole niente, lo Stato ha dato solo l’ok. La schizofrenia di questa dicotomia è esemplificativa: armi sì, librerie dopo un po’, come se di solito venissero prese d’assalto. Ma nonostante ciò rimane qualcosa di vagamente simbolico.

Tuttavia quello che si sta delineando è qualcosa di diverso: un delitto perfetto, il tentativo definitivo di trasformarci da uomini sociali composti da un pluralità di stimoli culturali a dei produttori/consumatori attivi h24, sette giorni su sette.
Ciò che era ben chiaro alle persone che hanno ricostruito l’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, oggi è l’ultima delle preoccupazioni se non addirittura un fastidio. Le grandi istituzioni in un modo o nell’altro torneranno, quello che si perderà sarà la moltitudine, la complessità, tutto ciò che è di nicchia, di ricerca, di sperimentazione: quindi il futuro e pluralità della cultura.

Ogni shock, ogni crisi produce un riassestamento, dei cambiamenti. Dopo la crisi del 2008 nessuna nuova idea si è realmente impossessata del nostro immaginario futuro, tutto è rimasto com’era, anzi molte cose sono peggiorate. Oggi con la nuova crisi che inevitabilmente arriverà, le idee e le ricette sembrano essere sostanzialmente le stesse ma con numeri più grossi. Quello che domina le nostre menti, il nostro immaginario e che si imporrà nel nostro futuro è quello che Mark Fisher ha chiamato Realismo Capitalista. Se la cultura verrà ancora più abbandonata, esaurita questa crisi non solo ci ritroveremo peggio di oggi, ma saremo anche profondamente diversi come società: ancora più divisi, arrabbiati, irrequieti e persi.

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