Unorthodox, ebraismo, spiritualità, politica ed emancipazione femminile nella nuova miniserie targata Netflix
C’è una questione ebraica in giro per il mondo, ancora oggi. E la Storia delle grandi potenze mondiali sembra esservi avviluppata, non solo perché nel corso degli anni ne sono stati diretti assassini e perché ancora oggi l’antisemitismo brucia il motore dell’odio sociale. Ma anche perché la narrazione pubblica ha conseguentemente reso impossibile il racconto soggettivo, composito, delle varie comunità ebraiche nel mondo.
Unorthodox è una nuova miniserie lanciata da Netflix (4 episodi da 50 min ciascuno) che mette al centro la segregazione culturale, religiosa, sociale, di una comunità chassidica – frangia ebraica ultraortodossa – nel cuore di New York, a Williamsburg. La serie assume il punto di vista della protagonista, una diciannovenne dal nome Esty, che ha vissuto tutta la vita a Williamsburg senza mai muoversi da lì e che ad un certo punto, dopo un matrimonio impostole con il marito Yanki, fuggirà a Berlino per provare a cambiare il suo destino.
I due piani attraverso cui la trama si dipana consistono proprio nel racconto del passato-mai-passato di Esty a New York e la sua nuova vita in Germania. I flashback gettano luce su frustrazioni e infelicità della giovane nella sua comunità e sottolineano così le nuove forme di libertà. In quella Germania da cui Esty aveva ben imparato a diffidare e a condannare.
Le riprese della vita a Williamsburg sono ambientate soprattutto in interni e attorno alla neighbourhood di Brooklyn, mentre quelle a Berlino principalmente in esterni. Una scelta registica atta non solo a rendere visibile l’approccio soggettivo di Esty ma a mostrare con dovizia di particolari arredamenti, modalità di accedere a un appartamento e di vivere i cortili dei condomini a Williamsburg. Specialmente abitati da donne e bambini e nei momenti di convivialità con una ferrea partizione fra donne e uomini.
Unorthodox propone una storia di desiderio di emancipazione femminile. Non in Afghanistan o in Iran come molto più comodamente torna utile fare anche nella produzione culturale (si veda, a questo proposito il documentario ‘Sonita’ del 2015 con protagonista una teenager afghana che sfida le norme di esclusione del suo paese per poi volare negli Stati Uniti diventando un’affermata rapper che canta al mondo la rivendicazione di uguaglianza delle donne e la denuncia di quanto le sia accaduto; oppure ‘The Wedding Song’ del 2008, ambientato in Marocco durante il secondo conflitto mondiale, e che raffigura due giovanissime amiche – una ebrea e l’altra musulmana – che vivono i passaggi sociali della loro pubertà assaporando matrimoni combinati, imposizioni estetiche e religiose, arrivando a dover rischiare la loro amicizia). Ma a New York. La Grande Mela. Il simbolo dell’Occidente sviluppato e del progresso infinito.
Questo aspetto rende la serie singolarmente straniante, in particolare agli occhi di un pubblico europeo. Com’è possibile che ci possano essere delle isole senza diritti per le donne all’interno della città che occupa la sede principale delle Nazioni Unite…? Com’è immaginabile che lo spazio della legge nella ‘più grande democrazia’ al mondo possa essere a tal punto sconosciuto…? Cosa pensare della più volte sfoggiata superiorità israeliana, ebraica, nel rispetto delle minoranze sessuali e dell’attenzione verso le questioni di genere come le strategie di pinkwashing hanno messo in luce nell’ultimo decennio…?
Beh, forse tutto questo ci dice che da più parti ormai si avverte il bisogno di una narrazione sfaccettata, finalmente aperta alle contraddizioni e non più duale assassini-o-vittime, dell’identità del popolo ebraico.
La protagonista Esty (Shira Haas) viene costantemente additata come ‘diversa’ ma tenta di integrarsi nella sua comunità, come spiegato in Unorthodox backstage. Fa anche di più: si aspetta di essere trattata come una regina se deve trattare suo marito come un re a letto, per non fargli perdere sicurezza… Questo è un aspetto fondamentale che assieme alla fisionomia dell’attrice – minuta ma dal volto mai sommesso – funzionano nel mostrare come abbandonare il proprio habitat non sia mai automatico e senza dolore.
Non esiste liberazione univoca che non provochi ripensamenti, sensi di colpa, ingratitudine, inferiorità.
La splendida sequenza sulla rasatura dei capelli di Esty una volta sposata non è solo un’immagine di iniziazione, per altre donne della comunità un orgoglio di status che apre all’ascesa sociale delle donne all’interno della famiglia nel momento in cui metteranno al mondo dei figli (come sostiene la zia di Esty). Anzi, le lacrime di disperazione nell’atto della sottomissione denotano un’assenza di accettazione dei ‘costumi’ della propria comunità. Spogliarsi del controllo su di sé non è un dono per gli altri: è un’ingiustizia, e la regia lo mostra interamente.
La comunità chassidica di Williamsburg, New York, – che non è America a detta di Esty – presenta innumerevoli casi legati al vaginismo e alla sterilità, come evidenziato anche dalla scrittrice Deborah Feldman al cui romanzo autobiografico (Unorthodox: the Scandalous Rejection of my Hasidic Roots) la serie si ispira – soprattutto sul versante della vita negli States di Esty.
Vaginismo e rivendicazione del piacere. Sessualità matrimoniale forzata e vissuta come evento collettivo piuttosto che intimo (Mi sembra di fare sesso con tutta la famiglia quando siamo a letto, dirà Esty al marito dopo l’ennesima intrusione della mamma di Yanki che vuole sincerarsi del buon andamento sessuale della coppia a fini procreativi, fino a ipotizzare il divorzio fra i due se un figlio dovesse continuare a tardare dopo il primo anno di matrimonio).
A questo riguardo è bene ricordare come questa comunità sia stata fondata originariamente nell’Est Europa e, in seguito all’Olocausto, vari sopravvissuti abbiano portato avanti la tradizione negli Stati Uniti. La serie cerca di toccare il tema della tossicità del patriarcato per gli uomini, specie giovani come il marito di Esty, dipinti come fondamentalmente genuini persino nel perseguire i dettami più rigorosi dei rabbini più anziani.
Ci sono delle criticità nel perseguire questo obiettivo attraverso una sorta di messa a nudo dell’ingenuità del potere, quasi innocente. Non sembra del tutto convincente l’idea che stanno crescendo assieme, Esty e il marito, quando si ritrovano e si riscoprono diversi a Berlino, come suggerisce la serie. Yanki è stato il maschio che ha preteso sesso da Esty in quanto moglie, ha preteso che non sentisse dolore durante l’atto ‘come tutte le mogli dei suoi amici’, ha preteso di riportarla a Williamsburg nel momento in cui ha deciso di partire per la Germania. È sicuramente soggiogato dai limiti della sua comunità e del suo credo religioso, ma ne trae un profitto e delle libertà – anche clandestine, come quando viene tentato dal suo compagno di viaggio a Berlino a ricorrere a una prostituta per sollazzarsi di piaceri proibiti – inimmaginabili per Esty. E cui non sembra davvero rinunciare.Ulteriore elemento di unicità della miniserie è la lingua in cui è stata girata, yiddish con incursioni di inglese, così come si comunica all’interno di questa comunità. Questa scelta è misura dell’esistenza di un microsistema nel macrosistema e segno del multiculturalismo ghettizzante che ha infettato molte società occidentali, affrontato solitamente solo a proposito di episodi di terrorismo cosiddetto ‘islamico’ e che hanno come protagonisti cittadini europei, statunitensi o australiani.
C’è una questione ebraica, dicevamo all’inizio. Negli Stati Uniti e, specialmente, in Germania. Unorthodox mette in luce come cittadini delle due sponde dell’Atlantico, vincitori e vinti dell’ultimo conflitto mondiale, tentino di elaborare ferite storiche e desiderino nuove comunità umane.
Sin dagli anni ’50 la psicologia sociale (Allport, 1954; Pettigrew, 1998) ha dimostrato come l’ipotesi del mero contatto intergruppi sia fallimentare nel superare questo tipo di percezioni che ostacola la gestione dei conflitti soprattutto nella fase post-risoluzione, che non è quasi mai risolutiva sul lungo termine. Non basta, in altri termini, mettere insieme gruppi che si sono combattuti in precedenza per creare empatia e condivisione con l’altro, promuovendo una sorta di nuovo stato socio-emozionale. Questo contatto deve includere una serie di condizioni quali medesimo status sociale dei componenti di entrambi i gruppi, il ruolo di figure terze non considerate vicine a nessuno dei due gruppi, il coinvolgimento in attività concrete e graduali percepite come strumentali al benessere comune. In più, convergere verso modelli socio-emozionali o strumentali dovrebbe essere tarato in base al tipo di conflitto e gli obiettivi della risoluzione (es. vivere in uno stesso stato come con l’apartheid in Sudafrica oppure la formula due stati indipendenti come si è ipotizzato per il conflitto israelo-palestinese).
Unorthodox affronta lo spaccato di vita a Berlino di Esty come un affresco di integrazione fra diverse nazionalità, religioni, orientamenti sessuali. Sembra proprio l’Eden che la giovane stava disperatamente cercando, in cui l’accoglienza è la parola d’ordine e – con un po’ di impegno – tutto sembra possibile … un po’ un sogno americano d’Europa.
Si avverte la mancanza di problematicità della questione di classe, diversità di istruzione, dello status di rifugio politico (da New York, l’inferno da cui proviene Esty, sic!) fra la protagonista e i suoi nuovi amici musicisti incontrati per puro caso a Berlino a partire da un bar in centro e grazie a cui sperimenterà lo studio della musica classica. Saliente l’interazione fra ebree di diversa apparenza come Esty e la giovane di origine israeliana che fa parte della compagnia musicale di Berlino. Quest’ultima si rivolge a Esty con ruvida schiettezza sulle sue capacità musicali e sulle sue possibilità di vincere la borsa di studio, facendo appello a un certo background comune tra le due che consentirebbe un certo tipo di comprensione reciproca.
La studentessa israeliana, in Germania da tanto tempo, indipendente, emancipata, riconosce nel vissuto di Esty la sua appartenenza a una comunità occlusiva per le donne cui nega l’istruzione e pari dignità rispetto agli uomini. Qui l’interesse per la sensazione di libertà e diversità che emana questa ragazza deriva essenzialmente dal fatto che la persona cui si rivolge, Esty, sia cresciuta a New York… Ancora una volta. Altrimenti, il loro dialogo sarebbe parso come tanti altri in cui una visione laica si contrappone ad una ortodossa in materia di genere.
La Germania irride gli stereotipi che hanno gli stranieri verso di essa, con i musicisti che scherzano sui monumenti berlinesi più famosi che condannano l’Olocausto e un eterno ricordo. Suona come una difesa, una voglia matta di essere celebrati solo per la potenza economica e di integrazione culturale.
Ebraismo, spiritualità, politica. Di nuovo in una serie TV, come “Transparent” (2014).
Cosa muove oggi la coscienza esistenziale di un popolo in lotta con la Storia…?
«Ogni volta che abbiamo abbandonato le nostre abitudini, ci siamo vestiti come i vicini, abbiamo acconciato i capelli come i vicini, Dio ci ha punito», dice un anziano membro della famiglia di Esty durante il discorso della Pasqua ebraica.
Quale protezione stiamo offrendo all’espressione della diversità culturale…? Quali diritti stiamo difendendo?