25 aprile 1945, a Milano, verso l’ora del tramonto, in via Brera, a pochi passi dall’Accademia di Belle Arti.
I tedeschi hanno appena abbandonato la città. Un drappello di partigiani è in perlustrazione, a caccia di fascisti armati. La comanda lo scultore Andrea Cascella. È stato lui stesso a raccontarmi, negli anni Settanta, l’episodio imprevedibile in quel drammatico contesto. Vede improvvisamente sbucare da un angolo della via un uomo in fuga con una pistola in mano. Viene raggiunto rapidamente, e Cascella lo riconosce all’istante, senza bisogno di interrogarlo. Si tratta del celebre artista Mario Sironi, fascista della prima ora, e aderente alla Repubblica di Salò. Cascella è preso da imbarazzo e pietà, e del resto non gli risulta che Sironi abbia mai commesso crimini. Cosciente di compiere un gesto di umana giustizia, disarma quella primaria icona dell’arte del Regime, e lo nasconde in un androne buio. Del resto, molti altri pittori sono stati ben più torbidi cortigiani del Fascismo; da ricordare la gratuita violenza dello scrittore e pittore Ardengo Soffici; la goffaggine adulatoria di Carlo Carrà nei confronti di Mussolini; la professione doppia del pittore Ottone Rosai, il quale dopo aver dipinto poetici paesaggi toscani, si dilettava, prima ancora della Marcia su Roma, a manganellare gli scioperanti nelle sfilate di protesta.
Tanti anni fa, ci sentivamo in colpa a citare le opere di Sironi, e a collocarlo tra i grandi del Novecento. Col senno di poi, oggi possiamo riconoscergli il merito di non avere mutato il suo registro espressivo neppure nelle occasioni di importantissime committenze istituzionali. Pur avendo dato da tempo addio alla ricerca di area Futurista, ne aveva conservato frammenti espressivi tra concretezza e allusione; tra staticità e spostamento ottico della rappresentazione tramite le variabili tonali. In ogni caso, il suo fascismo, fermamente e disperatamente ribadito sino alla sua morte nel 1961, lo ha celebrato senza violenza, ma solo tramite una liturgia estetica e pagana del tutto coerente con le disposizioni di Margherita Sarfatti. Il gesto generoso di Andrea Cascella che lo disarma, e che gli consiglia di rimanere nascosto, è un omaggio al Maestro, non certo al Nemico.
Il “poi” di Sironi è tristissimo e drammatico. Ai cocenti rimpianti per la fine dei suoi sogni rivoluzionari, si aggiunge la tragedia del suicidio di sua figlia Rossana, di solo 18 anni.
Strazianti sono questi suoi versi d’addio:
Piccolo cuore forte
mi ascolti
E’ il cuore del padre che ti chiama
Nel buio – E’ la sera
Del nostro giorno
E l’ultime luci si spengono
Nelle stanze deserte
Tra poco è notte. Ancora
Le tue mani, bambina si stringono alle mie
Nel profondo dell’ombra
Mi dici aiutami papà mio
Una curiosa coincidenza: fuggito a piedi da Milano, sulla strada per Como, Sironi viene fermato a un posto di blocco. Il caso vuole che nella pattuglia partigiana ci sia il futuro grande scrittore Gianni Rodari, che lo riconosce. “Non so se posso vantarmene: gli firmai un lasciapassare in nome dell’arte.” (M. Argili, Gianni Rodari. Una biografia, Torino 1990, pag.14). Questa testimonianza non contraddice affatto – come qualcuno ha sostenuto – quello che mi ha raccontato Andrea Cascella; era un uomo probo e giusto, che non aveva nessun motivo di mentirmi, né meriti da aggiungere al suo autentico impegno democratico. Semplicemente, l’artista Mario Sironi ha avuto la fortuna di incontrare, a poche ore e a pochi chilometri di distanza, uno dopo l’altro, due galantuomini.