Hybrid Archipelago è una modalità di dialogo; come un arcipelago ibrido delinea una nuova morfologia che unisce le pratiche estetiche degli artisti emergenti italiani con le loro destinazioni, che da forma al ruolo centrale della cultura visiva. Questa conversazione è dedicata ad Alessia Rollo (Lecce, 1982).
Il medium della fotografia è legato indissolubilmente a due aspetti: quello estetico e quello sociologico. Come li tratti? Come ti dirigi verso una serie, e come ne strutturi le varie fasi?
La fotografia ha un potere incredibile data la sua capacità di sintetizzare la realtà in un frammento che a volte sfugge di mano o di mente a chi fotografa.
L’estetica e l’etica per me devono sempre andare di pari passo nella costruzione di un’immagine. Farsi sedurre dalla possibilità di creare foto cariche di pathos è una tentazione molto forte che cerco di evitare nei miei lavori. Mi sono interrogata su questa ambivalenza della fotografia quando ho iniziato a lavorare sul mio progetto Fata Morgana, in cui ho proposto un superamento degli stereotipi mediatici sulla rappresentazione del fenomeno migratorio in Europa degli ultimi anni.
Quando inizio a lavorare su un nuovo progetto cerco di interrogarmi sulle ragioni profonde che mi spingono a trattare una tematica, sul mio grado di coinvolgimento e su che punto di vista apportare in una narrazione fotografica contemporanea già così satura di proposte. Cerco sempre di essere il più informata possibile sul tema che sto trattando, di essere onesta nelle mie dissertazioni e trovare una chiave visiva personale.
I miei progetti sono spesso a lungo termine perché trascorro molto tempo a lavorare le intuizioni: dopo questa fase, in genere inizio a raccogliere materiali che mi chiamano l’attenzione, a leggere, studiare, a prendere appunti e realizzare schizzi. Poi iniziano a sorgere delle immagini, un filo conduttore tra le idee e tra gli archivi raccolti. Allora inizio a produrre delle mie foto. Solitamente questo processo dura dei mesi: dopo dì che analizzo il materiale prodotto e inizio d’accapo. Studio, realizzo bozzetti, preparo nuove immagini.
Credo che sia il mio metodo di lavoro ormai interiorizzato.
Ho trovato molto poetica la tua iniziazione alla fotografia avvenuta in Irlanda. Ce ne puoi parlare?
A 23 anni, dopo la laurea, ho deciso di trasferirmi in Irlanda: avevo necessità di allontanarmi dalla mia zona di comfort e capire che strada prendere dopo l’università. I primi mesi sono stati una sfida soprattutto per la lingua: parlavo pochissimo inglese e questo accentuava la mia sensazione di isolamento ed estraneità.
Avevo portato con me una macchina fotografica analogica che i miei amici mi avevano regalato il giorno della mia laurea: una Pentax 35mm. Non avevo mai utilizzato una macchina fotografica, ho impostato tutto su “modalità automatico” e ho iniziato a scattare. Per me è stato un modo per iniziare a creare un canale di comunicazione, prima di tutto con Dublino, poi con le persone. Da un lato scoprivo la città in un modo nuovo e la camera mi permetteva di sentirmi meno sola, in un certo modo mi schermava e mi dava un ruolo. Poi utilizzavo le immagini per far vedere quello che a parole non riuscivo a esprimere. È cosi che la fotografia è entrata nella mia vita e non è più uscita.
Quali fotografi o artisti hanno influenzato maggiormente i tuoi esordi?
Ricordo che quando ho iniziato a dire che volevo studiare fotografia amici e parenti mi iniziarono a regalare libri di Bresson, Doisneau, Erwitt. Confesso che hanno esercitato un’influenza molto breve su di me. Non capivo queste iperboli visive, tutte le regole che bisognava seguire per realizzare una foto “corretta” che a me sembrava molto noiosa, come un esercizio di ginnastica ben eseguito, ma tutto qui. Ovviamente non voglio togliere merito e valore a questi fotografi ma semplicemente il loro modo di intendere e utilizzare il mezzo fotografico non mi apparteneva. Da Dublino approdai in Spagna a Madrid per studiare fotografia: lì si squarciò il velo. Scoprì autori come Diane Arbus, Richard Avedon, August Sander, dei giganti della fotografia antropologica. Ma credo che chi abbia causato la rottura più grande nella mia mente su cosa si potesse fare con la fotografia sia stato Chema Madoz, un grande autore spagnolo che con il suo lavoro porta il surrealismo nelle sue scene realizzate con semplici oggetti quotidiani. In quel momento si è creato un corto circuito: ho capito che il mio immaginario, il mio bagaglio personale e culturale poteva essere portato all’interno di un’immagine. Ho iniziato a costruire così i miei still life: da li nasce la mia prima e propria serie In-domestico in cui indago la realtà circostante mettendo in scena un mio immaginario personale sugli oggetti inanimati. Successivamente ho scoperto Jeff Wall, Philip Lorca Di Corcia e Cindy Sherman che mi hanno trasportato in un’altra dimensione della fotografia, dove concetto e contenuto erano plasmati attraverso linguaggi fotografici vincolati ad altre discipline come l’arte concettuale o il cinema e che riflettevano sullo stesso mezzo fotografico. Sono loro i Caronte che mi hanno traghettata su quello che ora realizzo a livello fotografico.
Indubbiamente la fotografia è testimone attento e rivelatore del reale, ma non dell’accadimento o dell’oggetto reale, bensì del suo meccanismo di percezione. Cosa ne pensi?
La fotografia nasce in un contesto storico legato al positivismo, alla fede nella scienza e nella tecnologia. I suoi primissimi impieghi sono infatti quelli legati allo studio delle persone e delle cose: criminologi, medici, sociologi, botanici fanno ampio uso delle immagini cercando di creare evidenze della realtà. In alcuni casi realtà e percezione coincidevano, in altri no. Penso a Cesare Lombroso e ai suoi studi sull’eugenetica e la frenologia: ha compilato album e album di fotografie per dimostrare che esistevano individui “nati criminali” per delle caratteristiche fisiognomiche. Ha condotto studi sulle donne prostitute, sui meridionali, sui detenuti. La sua era una percezione del vero ma non era vera. Le sue teorie si dimostrarono del tutto infondate un secolo dopo.
Credo che quando si lavora con un mezzo specifico di comunicazione come la fotografia bisogna essere consci delle sue potenzialità e di come lavori sui meccanismi di percezione: artisti come Franco Vaccari lo hanno in maniera esemplare. Penso oggi a Thomas Ruff con Nacht o al pioneristico lavoro di Larry Sultan e Michel Mendel Evidences: la fotografia è un’evidenza si, ma di cosa?
Se la rimuoviamo dal suo contesto originario, il suo significato e il suo messaggio diventano fragili e fluttuanti.
Hai un’impostazione nomade e sei presente nei circuiti internazionali. Dopo la laurea in Italia hai proseguito gli studi alla EFTI a Madrid per la quale hai anche lavorato per alcuni anni. Sei stata scelta dal comitato scientifico di varie residenze; dal Giappone alla Etiopia: potresti descrivere la tua esperienza di fotografare un posto in cui non sei mai stata prima? Potresti parlare dei progetti, che hai articolato e che andranno ultimati, in queste due nazioni?
Lavorare su commissione o durante delle residenze è sempre un’esperienza diversa rispetto a iniziare dei progetti personali a lungo termine. Cambia la metodologia di lavoro, la tempistica e la necessità di lavorare in dialogo con una realtà geografica specifica e con un interlocutore che interpella il tuo sguardo per creare un progetto.
Nel 2018 ho svolto due residenze molto belle, di cui la prima, a febbraio, in Giappone. Sono stata selezionata come fotografa italiana del programma European Eyes on Japan e ho trascorso un mese nella prefettura di Mashiko dove ho realizzato un progetto The Matter che concentra l’attenzione sulla centenaria produzione di ceramiche di quest’area. Ho cercato di mettere a fuoco una narrazione che fosse ampia, metaforica: da un lato ho cercato di raccontare il luogo, gli artigiani, i processi di realizzazione dei loro manufatti, dall’altra, come in Fata Morgana, ho realizzato immagini che inglobassero una visione nuova, inaspettata, quasi magica sul loro lavoro e sulle loro attività. Il progetto è stato già stampato sotto forma di libro e presentato in Italia e Bulgaria: speriamo quest’anno di poterlo presentare anche in Giappone.
Molto diversa è stata la residenza che ho svolto a marzo in Etiopia per l’istituto Italiano di Cultura: avevo una bozza di progetto che partiva dal ritrovamento di alcune immagini di album di famiglia che ritraevano i miei prozii in Etiopia negli anni Cinquanta. Volevo indagare anche quale fosse il lascito della presenza italiana negli anni Trenta nel paese. Avevo creato uno scheletro di un progetto che una volta arrivata lì non ha funzionato per nulla. È stato molto frustrante all’inizio ma è stata sicuramente una grande lezione: soprattutto come autrice. Ho capito che mi sentivo completamente a disagio nel trattare certe tematiche che non avevano molta rilevanza per gli abitanti del posto e che avrei rischiato di realizzare un lavoro “colonialista” se avessi continuato il progetto. L’ho quindi cestinato, privilegiando l’etica all’estetica.
Ho iniziato un nuovo progetto che ho ripreso quest’anno, quando mi sono recata nuovamente in Etiopia per continuare la mia indagine: ma la pandemia è scoppiata nel mentre e ora sono a casa, in Italia, come tutti. Ci riproverò il prossimo anno!
Indagare gli argomenti urgenti ed esplorare le varie forme del linguaggio fotografico rientrano nelle dinamiche della tua pratica artistica. Ne è un esempio Fata Morgana, vincitore della terza edizione di Fotocanal lo scorso anno. A febbraio, durante Arco Madrid, è stata presentata, nella cappella dell’Ambasciata d’Italia nel Palazzo de Amboage, una mostra legata a questo progetto e strutturata in una eterea installazione site-specific che ha dialogato con lo spazio narrandone l’equilibrio estetico, poetico con la potente drammaticità del soggetto trattato. Parlaci di Fata Morgana.
Fata Morgana nasce da un impeto, da un senso di disagio nei confronti di come la fotografia giornalistica stava intrappolando e appiattendo il fenomeno della migrazione. Nel 2015 viene prodotta e diffusa un’immagine che è stata definita da molti iconica, una delle immagini del secolo. Ritrae Alan Kurdi, bambino siriano trovato morto sulle spiagge turche. Quell’immagine provoca in me uno shock tremendo, umano e visivo. Non riesco a liberarmene ma non capisco neanche il senso dello sfruttamento mediatico della morte di un bambino che provoca indignazione breve – ahimè come spesso accade – e si accumula a tutte le immagini di sofferenza, crisi, morte che alimentavano i mezzi di comunicazione di quegli anni. Nei mesi successivi decido di lavorare su questo tema, sulla rappresentazione della migrazione nei mezzi di comunicazione: lo faccio con una specie di foga e di urgenza che mi porta a immergermi in questo lavoro per circa tre anni. La mia ricerca ha seguito principalmente due linee: quella tematica, in cui ho cercato di esplorare questo fenomeno da un punto di vista personale parlando da una realtà geografica concreta, il Salento, luogo di cui sono originaria; e quella tecnica, dove ho investigato le possibilità di rappresentazione di questo soggetto mettendo in dubbio la credibilità del mezzo fotografico stesso introducendo nella serie immagini di reportage, immagini di stage photography, still life, ritratti. Il progetto stesso è una grande questione sulla fotografia, sulla sua capacità di raccontare la realtà e sul ruolo che lo spettatore ha nei confronti dell’immagine: quello di interrogarsi sul significato delle fotografie e non di assimilarle passivamente.
Nel 2018, Dialoghi Italiani è stato uno dei progetti finalisti al Cosmos Book Award ad Arles; come strutturi la realizzazione di un libro?
Dialoghi italiani è un progetto che nasce dal ritrovamento fortuito di alcuni album di famiglia che qualcuno aveva deciso di abbandonare per strada. Molte delle immagini erano decomposte, ridotte a puro pigmento a causa del tempo trascorso sotto la pioggia.
Il lavoro parla della perdita materiale della memoria e apre un’indagine sulla fragilità della fotografia come supporto della stessa. Ho lavorato un annetto sulla realizzazione del progetto, coinvolgendo anche il dipartimento di nanotecnologie della mia città per analizzare le componenti “vive”, le nuove famiglie presenti sull’album.
Avevo una quantità incredibile di materiale e abbastanza chiara l’idea che un libro fosse il formato giusto per restituire il progetto al pubblico. Ho subito cercato dei disegnatori e ho iniziato a lavorare con Kaspar Hauser, un duo formato da Valerio Nicoletti e Davide Giorgetta. Apprezzavo molto il loro modo di lavorare e le loro idee grafiche, ci eravamo conosciuti durante Bitume, un bellissimo festival di fotografia in Puglia e mi aveva colpito il loro modo di far dialogare immagini e grafica.
Abbiamo lavorato a distanza condividendo materiale, idee, proposte di progettazione: è stato un processo a sei mani molto intenso e bello. Valerio e Davide hanno creato un percorso e un racconto della mia indagine fotografica tessendo insieme molti materiali diversi (fotografie macro, scatti di laboratorio, immagini dell’album). Il risultato è il dummy che ho presentato a Cosmo Award e che ho poi pubblicato come libro di autore in dieci copie.
Saresti dovuta trasferirti in Francia, all’inizio della primavera, per iniziare un nuovo progetto che ti è stato commissionato da una residenza e che vuole analizzare come cambierà la città. Stiamo tutti vivendo una fase di ristrettezze causata dagli effetti del Covid-19, ti invito comunque a introdurci questo nuova ricerca.
Ad aprile mi sarei dovuta recare in Francia, a Rennes, per lavorare su un progetto di residenza di tre mesi. Sono stata invitata come artista per il 2020 da Via Silva, uno dei progetti legati alla fondazione francese Alies De Icarius che sviluppa pratiche legate all’arte.
Il programma di residenza invita annualmente un fotografo a realizzare un lavoro di indagine sul cambiamento che si sta producendo in questa regione a causa della costruzione di un eco-villaggio, guardando le sue potenzialità ma anche il suo impatto sulla morfologia del territorio e sulle relazioni sociali.
Con la curatrice Silvia Carboni abbiamo deciso di posticipare le date del mio arrivo: sono molto curiosa di intraprendere questo nuovo lavoro e non vedo l’ora di poter iniziare questa nuova indagine che si prospetta molto interessante!
Questo contenuto è stato realizzato da Camilla Boemio per Forme Uniche.