“In questa storia ci sono sicuramente tanto silenzio, tanta immobilità e tanto vuoto, tutte entità spesso molto difficili da raccontare”. Marta Clinco, giovane fotoreporter freelance che collabora con testate quali il Guardian e la Repubblica, racconta la sua esperienza nel documentare l’emergenza Covid-19 in giro per l’Italia.
Ha 27 anni, è originaria della provincia di Milano e mai come in questo periodo ha girato l’Italia come una trottola per documentare quello che sta succedendo: dal bergamasco alla Calabria, da Roma al confine italo-sloveno. Marta Clinco è una giornalista, e nell’ultimo periodo si è specializzata nel fotoreportage. Collabora con Gabriele Micalizzi di Cesura, collettivo indipendente di fotografi con base a Pianello Val Tidone (PC). I lavori di Marta sono pubblicati, tra l’altro, dal britannico The Guardian, il Venerdì di Repubblica e FQ Millenium de Il fatto quotidiano. Abbiamo scambiato due chiacchiere con lei per capire com’è fare il suo mestiere durante un’emergenza sanitaria globale, quali sono stati i momenti più delicati che ha vissuto, ma anche com’è nata la sua passione per il giornalismo e in che modo è diventata fotoreporter.
Ciao Marta, partiamo dall’inizio. Quando e perché hai deciso di fare la giornalista?
Già verso la fine delle scuole medie avevo piuttosto chiaro cosa avrei voluto “fare da grande”. Ho sempre avuto dei professori di storia e letteratura attenti e sensibili, che mi hanno stimolata nell’approfondire quello che poi avrei scelto di fare nella vita. Ricordo che il primo giorno di liceo, che cadeva un 11 settembre, la prof ci fece leggere un pezzo di Oriana Fallaci uscito sul Corriere della Sera relativo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001. Mi colpirono moltissimo non tanto il contenuto o la tesi espressi – entrambi discutibili – ma la passione, l’impeto, l’incredibile capacità narrativa e di scrittura, la forma. Iniziai a vagare lungo tutta la sua produzione precedente, la collaborazione con L’Europeo, i romanzi, quello che si diceva “giornalismo narrativo”, con ogni suo limite. Fu certamente la mia prima fonte d’ispirazione. Poi scoprii tutti gli altri, da Biagi a Zavoli, da Buzzati alla Cederna alla Alpi. Mi aiutarono a capire cosa fosse per me il giornalismo, che considero soprattutto una forma di resistenza.
Come sei passata alla fotografia e quindi al fotogiornalismo?
Si dice che mio padre avesse una camera oscura quando ero piccola. In casa avevamo una quantità di foto e video spropositata, di me e di mio fratello. Credo che gli piacesse semplicemente documentare e raccontare la vita familiare. Sicuramente il fatto di crescere in un certo senso a contatto con la fotografia ha influito sul mio percorso. Prima scattavo con delle compatte, ovunque. Avevo l’urgenza di fermare le cose che mi accadevano da qualche parte e la fotografia era perfetta. All’inizio non ci capivo granché, mi divertivo nel fare tentativi. La prima reflex è arrivata al quarto anno di liceo. Più avanti ho iniziato a scrivere e ad affiancare la fotografia alla scrittura, a documentare anche attraverso le immagini quello che succedeva principalmente a Milano. Finché ho deciso di dedicarmi al fotoreportage. Scrivo tuttora, ma ho in parte accantonato la scrittura giornalistica per lasciare spazio alle immagini.
Non esiste un percorso canonico per diventare fotoreporter. Ci racconti concretamente come sei arrivata a fare il mestiere che fai oggi?
Se vuoi fare giornalismo in genere ti dicevano di studiare Lettere, perché corsi attinenti al giornalismo (almeno, quando ho iniziato io) in Italia esistevano solo in magistrale, o erano master molto lontani nel tempo nel mio immaginario. Mi sono iscritta quindi a Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano. Poi, per caso, un amico mi ha proposto di unirmi al giornale dell’università. Così nell’inverno del 2013 sono entrata a far parte della redazione di Vulcano. Mi occupavo molto di politica estera, Medio Oriente, Nord Africa – ovviamente, di Milano. La notte scrivevo, la mattina andavo in università, il pomeriggio lavoravo. In quel periodo ho iniziato a scattare un po’ più sul serio, per necessità di avere immagini di corredo ai pezzi. Nel giugno 2014 siamo anche riusciti ad aprire una radio, dove gestivo il settore news e il giornale radio. Tuttavia sentivo l’urgenza di fare qualcosa che sapevo da sempre di voler fare a tempo pieno, e il corso di Lettere mi stava rallentando, l’università era diventata un limite nonostante mi avesse dato molto. Nel 2015 ho rinunciato agli studi e mi sono trasferita a Londra, dove ho studiato News&Feature Journalism alla London School of Journalism. Tornata a Milano, ho scoperto che durante la mia assenza gli accaniti membri della redazione di Vulcano erano riusciti a trovare i fondi per fondare un giornale indipendente. Così è nato The Submarine. Più avanti sono arrivate le collaborazioni con Guardian e Repubblica, e nell’autunno dell’anno scorso quella con Gabriele Micalizzi e con Cesura, una bella realtà costituita da fotografi indipendenti dai quali sicuramente sto imparando molto. Ma non si finisce mai. Questo è un lavoro complesso anche dal punto di vista della sostenibilità economica, e il primo compito del freelance pare sia quello impossibile di far quadrare i conti e sopravvivere alle crisi: dell’editoria, delle news, sopravvivere alle pandemie…
Ogni giorno sui tuoi profili Facebook e Instagram pubblichi scatti d’impatto riguardo l’emergenza Covid-19. Come e quando è iniziata questa esperienza?
I fotografi e i giornalisti che stanno documentando l’emergenza sanitaria hanno un po’ avuto la fortuna di trovarsi in mezzo a questa circostanza, con la news fuori dalla porta di casa. Nessuno si aspettava un avvenimento di questa portata, e inizialmente la situazione è stata sottostimata da tutti. Ci si comportava in maniera imprudente e pericolosa, per noi e per gli altri, soprattutto per mancanza d’informazioni riguardo l’entità del fenomeno che avrebbe investito l’Italia e non solo. Ora ci si muove diversamente, protetti e in sicurezza, ma nelle prime due settimane la comunicazione riguardo l’emergenza e i rischi reali (sia di parte politica che sanitaria) è stata gestita in un modo che, senza esagerare, oserei definire criminale, consideratene le conseguenze.
Sei di base a Milano, nella regione più colpita dal virus, ma hai scattato fotografie anche in giro per l’Italia. Per quale motivo? Dove sei stata in particolare?
Nel documentare questa situazione ho collaborato principalmente con Gabriele Micalizzi e con Alex Zoboli, di Cesura. Considerando limitato il fatto di raccontare questa storia solo dal punto di vista del nord Italia, io e Alex abbiamo deciso di andare a vedere come stesse reagendo il sud Italia, anche perché se ne parlava poco. Certo, l’emergenza era ed è minore nella sua gravità e nei numeri, ma anche le possibilità di farvi fronte. Così, dopo Milano, Seriate, Cremona, Crema, Brescia e Piacenza, siamo partiti per la Puglia. Da lì abbiamo girato Basilicata e Calabria, dopodiché siamo risaliti a Roma per poi spostarci a Venezia e sul confine italo-sloveno.
Hai fotografato scene molto forti e drammatiche. Come ti sei rapportata, da fotogiornalista, con i momenti più delicati di questa situazione?
Non è facile entrare in determinate situazioni e poi uscirne, tu te ne vai e coloro che hai fotografato restano lì. Hai fatto le tue foto, hai fatto le tue interviste, sei a posto. Ma alla fine il tuo lavoro è quello, è giusto così, non siamo attivisti, non portiamo aiuti umanitari, scriviamo articoli o scattiamo fotografie nella speranza che, laddove è necessario, esercitino pressione sull’opinione pubblica, sulle istituzioni, contribuiscano a cambiare qualcosa o, almeno, ad allargare il punto di vista della narrazione, evidenziare le sfumature. Così è stato in parte anche in questo caso. Vedo il fotogiornalismo prima di tutto come uno strumento di denuncia, oltre al valore documentario e a quello della memoria in cui si traduce. In questo momento storico siamo testimoni di sofferenza e ingiustizie sotto tanti punti di vista: quella intima di chi deve stare chiuso in casa, legittima e non trascurabile; quella di chi non può andare a trovare i genitori anziani nell’RSA; quella di chi è in quarantena e non può sapere se è positivo al virus oppure no; la sofferenza di chi non ha informazioni sui propri familiari nelle case di cura; la sofferenza di chi ha parenti in terapia intensiva e non può vederli, quella di chi ha i parenti che muoiono e non può salutarli, celebrare i funerali, seppellirli.
Tra tutto quello che hai visto c’è un episodio che ti ha colpita in modo particolare?
Credo che il rapporto con tutti gli avvenimenti delle ultime settimane e in generale con la morte sia qualcosa di troppo intimo per essere raccontato e che tale debba rimanere. Sicuramente i feretri all’interno delle chiese del bergamasco e i camion dell’esercito che li trasportavano verso i cimiteri di mezza Italia restano un’immagine forte, così come i funerali aperti solo ai parenti più stretti, nella totale solitudine, e nel silenzio. In questa storia ci sono sicuramente tanto silenzio e tanta immobilità e tanto vuoto, tutte entità spesso molto difficili da raccontare.
Le tue fotografie, per lo meno quelle relative all’emergenza Covid-19, sono tutte in bianco e nero. Perché questa scelta?
È una domanda che fanno tutti e non ho mai una risposta netta. Forse perché sono cresciuta guardando le foto di grandi fotografi che scattavano in bianco e nero. Non disdegno il colore ma penso che spesso non aggiunga informazioni necessarie al contesto, e che il bianco e nero veicoli meno distrazioni.
C’è un linguaggio visivo a cui cerchi di attenerti nel momento in cui ti trovi a fotografare in una situazione complicata come questa?
Il mio, nella maggior parte dei casi, è un approccio prettamente giornalistico, secondo cui la prima regola da seguire è che la foto deve raccontare quello che sta succedendo e contenere più informazioni possibili. Poi ovviamente c’è l’interpretazione personale: ad esempio, in una chiesa piena di bare, il punto per me rimane non tanto la quantità delle stesse ma il fatto in sé, ossia che i feretri si trovino in una chiesa. Comunque in linea di massima credo sia importante dare tempo alle persone che si incontrano, così come ai luoghi: lasciare che si raccontino, e cercare di restituire quello che ti dicono attraverso l’immagine.
Ora che sei tornata a Milano, quali sono i tuoi piani per i prossimi giorni?
Probabilmente gireremo ancora tra Nord e Centro Italia per focalizzarci sulle conseguenze politiche e socio-economiche che deriveranno da questa emergenza. Cercheremo di indagare anche la questione delle applicazioni per il controllo dei contagi e il tema della privacy di cui tanto si parla, spesso nel modo sbagliato. Arriverà il momento di affrontare e raccontare anche le conseguenza psicologiche che questo dramma collettivo si porterà dietro, sia a livello sociale e comunitario, sia nell’ambito più specifico degli operatori sanitari. Verrà anche il momento dell’editing finale sul lavoro fatto negli ultimi due mesi, ma temo sia ancora lontano, così come la definitiva risoluzione – se dovesse esserci, a tutti gli effetti – di questa emergenza e delle sue conseguenze.