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TikTok e gli Uffizi: nuova opportunità da sperimentare? Analizziamo e parliamone

Uffizi Gallery, primary art museum of Florence. Tuscany, Italy Galleria degli Uffizi, Firenze
Uffizi Gallery, primary art museum of Florence. Tuscany, Italy
Galleria degli Uffizi, Firenze

Gli Uffizi sono sbarcati su TikTok. La notizia ha fatto velocemente il giro tra gli addetti al settore con pareri contrastanti. C’è chi elegge le Gallerie fiorentine ad apripista nel coinvolgimento dei giovanissimi e chi vi vede il chiaro segnale del vuoto intellettuale della nostra epoca.

Prima di farci un’opinione analizziamo i fatti. Dopo YouTube, Twitter, Instagram e, recentemente, Facebook, gli Uffizi hanno aperto un nuovo canale sul social media di punta tra gli under 18: TikTok.

Tik Tok: come funziona?

Nato dalla felice fusione con Musical.ly, TikTok è il social media del momento. Sulla piattaforma è possibile creare e condividere brevi video di intrattenimento, personalizzabili con un ampio kit di editing e una ricca libreria musicale. Le clip sono di vario genere: dai balletti a sketch comici, da parodie musicali a lip-sinc. Contenuti veloci, spesso creativi, e per lo più di taglio ironico e umoristico. Fiore all’occhiello sono i TikTok challenge, sfide virali. Si lancia un tema e si sfidano i follower a cimentarsi nello stesso. I video devono essere di 15 secondi e, teoricamente, dovrebbero avere un fine positivo. Molto famosa la sfida #Theclimate dove gli utenti nelle clip mostravano comportamenti virtuosi adottati per aiutare il pianeta.

Il caso degli Uffizi su Tik Tok

Gli Uffizi sono approdati nel mondo dei tiktoker con quattro video in cui alcune opere d’arte prendono vita incarnando lo spirito canzonatorio e umoristico di questo social. Così assistiamo al Cavalier Pietro Secco Suardo (dipinto cinquecentesco di Giovanni Battista Moroni) che si aggira per Firenze e per i corridoi vuoti delle Gallerie al ritmo de “Le Feste di Pablo” di Fedez oppure origliamo una conversazione inverosimile tra i Duchi di Montefeltro sulle restrizioni alla mobilità (pure loro ne soffrono di questi tempi).

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La #festaincasa del cavaliere Pietro Secco Suardo. Screenshot dal profilo TikTok degli Uffizi.

Così come un giornale non è completo senza la vignetta e la caricatura della prima pagina, così anche un museo può fare umorismo”, riferisce Eike Schmidt, Direttore degli Uffizi, “serve ad avvicinare le opere a un pubblico diverso da quello cui si rivolge la critica ufficiale, ma anche a guardare le opere in modo diverso e scanzonato. In particolare, in un momento difficile come questo, è importante, ogni tanto, concedersi un sorriso e un po’ di autoironia. E se è possibile farlo grazie alla grande arte, ancora meglio”.

Tik Tok e il mondo dei musei

L’operazione messa in campo dagli Uffizi apre indubbiamente a molte riflessioni. Le Gallerie fiorentine non sono le prime istituzioni culturali ad affacciarsi su questa piattaforma. In Italia, per esempio, anche la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ha un suo profilo, anche se al momento poco costante nella pubblicazione. Istituzioni straniere del calibro del Metropolitan Museum of Art hanno cercato una loro voce e un loro pubblico. Spesso non riuscendoci.

Chi ha trovato un suo stile e una sua star è il Carnegie Museum of Natural History che grazie al curatore Tim Pearce ha “conquistato” il pubblico a suon di barzellette e battute sulle lumache. Le clip umoristiche del Carnegie Museum danno un nome e un volto allo staff del Museo, dimostrando che anche gli scienziati sono umani e con un sense of humor tutto loro. Alle barzellette di Tim si alternano video che presentano le attività del Museo con alcuni approfondimenti. Quindi i tentavi nel settore museale ci sono, sebbene ancora timidi. Ed è giusto, se ritenuto strategico, sperimentare.

Breve inciso. Cercando su TikTok alcuni profili del mondo della cultura e dell’informazione, ho scoperto che ce ne sono diversi appartenenti a parchi e zoo (per esempio il San Diego Zoo), alcune testate giornalistiche (come il Washington Post), nonché organizzazioni del calibro di Unicef e UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) che nella sua bio dichiara “over 50% of refugees are under 18. Imagine if you had to flee your home” con una serie di clip che trasmettono in modo chiaro e preciso questo messaggio.

Let’s discuss!

I social media sono stati guardati fin dalle origini con reticenza, se non addirittura dichiarato disprezzo, dall’élite culturale. Eppure, nonostante il relativo snobismo italiano, la comunicazione di un’istituzione culturale deve muoversi strategicamente su questi canali, pena la non visibilità e non rilevanza a una fetta considerevole di potenziali visitatori (tra le altre cose). Il Museo dotato di una strategia comunicativa che mira a essere attenta, inclusiva e accessibile, non può non considerare i canali social come uno dei suoi presidi da usare professionalmente per dialogare e interagire con le persone, che siano visitatori o meno.

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TikTok

Se il demone un tempo era Facebook o Instagram, per citarne due, ora è TikTok. Non cadiamo nella trappola di etichettare frettolosamente questi strumenti senza prima averli studiati e analizzati. Per far ciò servono istituzioni che abbiano il coraggio di sperimentare. Magari si rivelerà un buco nell’acqua com’è stato Snapchat, magari diventerà lo strumento di punta per parlare con un certo target nei prossimi anni. È fatto appurato che tutti i social media sono destinati a cambiare e, in quanto professionisti, dobbiamo avere una naturale inclinazione ad assecondare questo cambiamento.

Certo, TikTok sembra basarsi su grammatiche che apparentemente sono lontane dal modo a cui siamo abituati a comunicare, specie per una istituzione culturale. Il rischio è creare contenuti fuori contesto e fuori luogo che si rivolgono forzatamente a un pubblico che non conoscono. Ma, d’altro canto, ogni social media ha imposto una serie di sfide comunicative di non poco conto, portando le istituzioni culturali (almeno quelle che “ci sanno fare”) a ri-pensare e ri-modellare il contenuto per trasmetterlo, in modo proattivo.

La grande sfida

Adattare l’informazione allo strumento, che sia social come in questo caso, non deve essere un’operazione di impoverimento della portata culturale, ma, a mio parere, deve arricchire il contenuto di nuove sfumature. È questa la grande sfida: prendere il contenuto, spesso ingabbiato in un linguaggio difficile e lontano, e liberarne le potenzialità comunicative rendendolo comprensibile e accessibile a tutti e, perché no, anche divertente.

L’umorismo, l’ironia, il divertimento, la risata non sono dei tabù nel mondo dei musei. Un’opera può fare ridere, piangere, riflettere, può suscitare una molteplicità di emozioni sfaccettate che devono essere espresse e che non possono essere bollate come disdicevoli perché inconsuete rispetto a chissà quale filtro interpretativo.

I social possono essere un canale attraverso cui umanizzare il contenuto culturale senza per questo svilirlo, ma rendendolo vicino, come qualcosa di mio, di tuo, di nostro, che suscita sorrisi, pensieri, risate di cuore. Anche rifiuto, perché no, se costruttivo. È un ulteriore percorso per compiere, insieme ad altre strategie promosse dal Museo, quella missione straordinaria e straordinariamente importante che è la diffusione della conoscenza che implica, al tempo stesso, partecipazione (i social non sono canali unidirezionali, ricordiamolo).

E quindi?

Approdare su TikTok non dovrà essere d’ora in poi l’obiettivo di tutti i musei solo perché gli Uffizi l’hanno fatto, sia chiaro. Non può essere un mero trend. Quando intraprendiamo operazioni del genere dobbiamo sempre interrogarci sugli obiettivi, sul pubblico, sui messaggi che vogliamo veicolare. Meglio essere coerenti, costanti e di qualità su un solo social media piuttosto che essere onnipresenti, ma in modo blando, povero e che nulla trasmette a chi ti legge o ascolta. Sarà interessante seguire nei prossimi mesi la strategia e i contenuti messi in campo dagli Uffizi. Ora, a mio parere, è prematuro giudicare.

TikTok pone nuove sfide, richiederà una certa dose di studio, di impegno e di risorse (professionali, economiche e creative – così come tutti i social) perché comunica a un pubblico differente che si muove in modo differente. Facciamoci delle domande. TikTok raggiunge un target che come Museo è di interesse? Che magari sta già interagendo con l’istituzione e non ne siamo consapevoli? Può essere un strumento per sperimentare una nuova dimensione partecipativa?

Non possiamo escludere a priori le potenzialità di TikTok in campo culturale solo perché si muove su corde lontane da quelle a cui siamo abituati. Studiamo, osserviamo, analizziamo, mettiamoci in discussione e, se pensiamo sia un percorso strategicamente possibile, non temiamo di “osare”.

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