Durante la lettura di questo testo consiglio di ascoltare (possibilmente con le cuffie) “The Outsider”, una playlist che ho pubblicato e aggiornato negli ultimi due mesi. Le cinque tracce pubblicate sono realizzate combinando registrazioni esterne e sessioni d’improvvisazione avvenute all’interno della mia casa a Milano. Ognuna di esse ha permesso la scrittura di ogni singola sezione del testo. Tuttavia non si è obbligati a leggerlo seguendo lo stesso percorso. Buona lettura e buon ascolto.
Durante le giornate, quando il sole trafigge le tende della mia camera proiettando dei quadrati di luce sui muri, faccio finta di essere dentro un film. Rimango fermo in piedi e mi lascio trapassare dalla luce. Guardo davanti a me intensamente e faccio finta di essere un oggetto inquadrato da una telecamera. Mi immagino davanti al punto di vista di qualcuno o di qualcosa. Nelle giornate grigie invece mi lascio trasportare dal tempo. Se piove faccio finta di non esistere. O meglio, vorrei accodarmi a tutte quelle gocce che cadono e cessano di essere gocce, in modo da potersi immergere in qualcos’altro. Vorrei nascere per poi cadere giù, accompagnato dai tanti kamikaze pronti a sacrificarsi per far dimagrire le nuvole. Quando piove non guardo, ma non sono neanche guardato. Sono neutrale e composto. Una goccia modesta senza troppe pretese. Chiedo solo di raggiungere l’asfalto e di unirmi ai miei defunti amici nella grossa pozza d’acqua. Quando le nuvole continuano il loro percorso scortate dal vento, smette di piovere. Io rimango lì, in quella grossa pozza d’acqua ad aspettare. Finalmente vengo guardato dai raggi del sole che cominciano a toccarmi gentilmente. Poi, con il passare delle ore, i raggi diventano sempre più caldi e violenti, tutto si tinge di una strana tensione erotica. Avviene quindi un sacrificio, che agli occhi di un oceano potrebbe apparire estremamente insignificante. Eppure tutti noi concediamo le nostre molecole all’aria, il grande e lussuoso ascensore che ci porta su, sempre più su. Quale bellezza potrebbe mai fare i conti con questa ascesa celeste? Tutti noi danziamo nell’aria: ci alterniamo, ci scambiamo i partner, ci scontriamo. La danza si conclude nella parte più alta del teatro, davanti agli sguardi delle stelle. Ci inchiniamo per ringraziare gli spettatori e poi, finalmente, ci abbracciamo. In quel momento tutto assume un’apparenza caotica.
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Apro gli occhi ed è buio. La notte sembra perfetta per ballare. L’aspetto non importa, contano solo i movimenti. Nella mia camera entra la luce proveniente dai lampioni. I guardiani della notte puntano il loro sguardo sull’asfalto, l’unico luogo in cui le vite da tenere sotto controllo possono transitare. Ciò che sta sopra è nascosto. Il cielo nero non ha nulla da mostrare, se non il passaggio di stelle morte da tempo. Quando ballo nell’oscurità mi sento parte di quel cielo, dei vicoli bui e delle profondità del mare. Faccio paura perché su di me non viene esercitato alcun controllo. Ballare mi fa pensare al contatto. Il movimento è calore. Sono corpi che si cercano per poi toccarsi. Il buio, come la luce, permette le dissolvenze. L’uno si dona all’altro attraverso l’alternarsi di crescendo e diminuendo. Due amanti che si abbracciano tra un lento e una danza hardcore.
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Quando dormo accade l’impensabile: flauti magici mi traghettano lungo un corso d’acqua. Mi portano nel cielo, al cospetto di quei raggi di cui tanto ho beneficiato durante le mie giornate. Essi mi parlano attraverso granuli di polvere. Questi si posano su di me cominciando ad insinuarsi tra i pori della mia pelle. Ora sono dentro di me e prendono il controllo dei movimenti. Divento una spirale, una sorta di uragano. Distruggo tutte le case che incontro. Penso di essere uno spregevole tiranno. Ma mi domando: cosa sono quei muri, quei pavimenti, quegli elettrodomestici, quei cavi? Stanze, corridoi, cunicoli, metri quadri, perimetri, recinti, divisioni, interstizi, sgabuzzini, solai, seminterrati. Mattonelle, cemento, stucco, intonaco, carta da parati, mattoni. Vetri, rettangoli, legno, zanzariere, inferriate. Buchi, crepe, fili, rame, contatori dell’elettricità. Lampadine, neon, interruttori. Tubature, scarichi, feci, urina, carta igienica, acqua. Tutti schiavi di un ego smisurato. Tutti parte del processo di rimozione, di allontanamento, di imprigionamento. Ma ora torna tutto al suo posto: tutto diventa polvere cadente, in attesa di posarsi su qualche nuovo tiranno.
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La musica che sento quando penso all’esterno è una melodia ripetitiva e malinconica. Note di un piano riverberato, accompagnato da una chitarra suonata male che fa comunque la sua sporca figura. Siamo tutti spettatori di noi stessi quando parte quella musica. Io guardo e sono guardato. Ora siamo tutti vicini. Mio padre, mia madre. I miei nonni e i miei zii. Il mio primo cane. La mia ragazza. I miei amici più importanti. I miei cugini, dal più piccolo alla più grande. I miei libri. Gli insegnanti che mi hanno turbato, ma anche quelli che mi hanno aiutato. Il vecchio banano e la rana che abitava dentro quel tubo, nel mio giardino. Ci guardiamo e ci tocchiamo. Quando la melodia finisce ci abbracciamo.
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Una sirena mi indica che posso uscire e camminare. Tutto appare insolito e illuminato da una luce artificiosa, cerebrale. Tutta questa finzione mi fa pensare: forse siamo tutti delle opere d’arte in attesa di una piccola trasgressione, di una piccola ditata sulla nostra superficie. Sento dei versi di animali che non vedo. Dove sono tutti? Mi dici: gli uccelli cantano con il sole, ma sembrano più felici durante le giornate di pioggia. Forse non dovremmo essere tristi quando piove, dovremmo convivere con il grigio. Significa che il buio e la luce si sono finalmente abbracciati, e ora possono tornare ad allontanarsi.
Roberto Casti (Iglesias, 1992) vive e lavora tra Milano e la sua città natale in Sardegna. La sua ricerca artistica non esclude alcun tipo di linguaggio. Le sue opere infatti sono spesso combinazioni di media differenti (video, performance, pittura, disegno, installazione, produzione musicale) utilizzati per immaginare un macrocosmo abitato da entità simbiotiche tendenti alla costruzione di una collettività. L’artista, soprattutto attraverso il suo progetto musicale e collaborativo The Boys and Kifer, riflette sulla relazione tra individuo e collettività, tra arte e pubblico, tra solitudine e mimetismo. Ha collaborato con spazi e istituzioni come Marsèlleria (Milano), OGR (Torino), MAN (Nuoro), FRAC (Corte, Francia), PAV (Torino) e l’Accademia di Brera (Milano).