Natalia Carminati (1982, Buenos Aires) è argentina di nascita, italiana di discendenza. Artista multimediale, sperimenta con pittura, video e installazioni. Dopo l’esperienza presso la Fàbrica de Creación – Fabra i Coats, Centre de Art Contemporani Piramidón sviluppa oggi una residenza a La Escocesa di Barcellona. Con le sue opere tocca temi come il colonialismo, il sistema culturale, l’economia e l’ecologia. Il risultato delle sue ricerche non è mai una risposta ma l’insieme di più punti di vista, una visione personale e critica del mondo, un luogo dove convivono, allo stesso momento, contraddizioni e idee opposte, dove non c’è il giusto o sbagliato ma semplicemente percorsi e mete differenti.
Da quanto tempo lavori come artista e quali sono le differenze tra i tuoi inizi e oggi?
Sono Argentina, di Buenos Aires, e vivo a Barcellona da nove anni. In questa città ho iniziato a dedicarmi davvero all’arte. Anche se, in realtà, quella che feci al The Art Student League di New York è l’esperienza che ha segnato “un prima e un dopo” nella mia carriera. Quello che mi interessava, e che più m’impressionò, fu la sua organizzazione: indipendente, con studi aperti che permettevano una gran libertà di processo ed elaborazione. Qui a Barcellona ho studiato alla Escola Massana con Gabriel Sanz, un’esperienza meravigliosa. Come puoi capire, tutto questo background fa parte del mio processo vitale.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Uno dei miei primi progetti è Festividad-Masacre (2014), sedici pannelli dove l’immaginario taurino – legato al mondo della corrida – coincide con quello del colonialismo; una metafora dell’imposizione culturale, sociale e degli eventi non solo storici ma anche attuali. Ancora oggi ci sono comunità che continuano a lottare per i loro diritti, in Argentina c’è quella Mapuche. Io ho poco contatto con questa realtà; sembra orribile dirlo ma se mi pongo la domanda “da dove vengo?” mi ritrovo a pensare alle mie discendenze italiane, ma questo fa parte di un altro pezzo della storia. Nelle mie opere mostro costantemente entrambi i due lati della medaglia, perché questa è la nostra realtà, tutto convive allo stesso momento.
C’è un mio lavoro, esposto l’anno scorso al Piramidón, intitolato Dead Languages of America (2014), un omaggio alle quarantadue lingue che sono ufficialmente considerate estinte. Quando una lingua scompare, muore anche una cultura, un modo di pensare, un modo di vivere e un mondo. Ho voluto fare un “tributo” anche alle sei lingue che si sono espanse e che allo stesso modo hanno permesso di mettere in comunicazione territori che prima non lo erano. Con questo volevo riflettere su ciò che stiamo ottenendo e mostrare anche quello che stiamo perdendo.
Un’altra importante linea di investigazione si è sviluppata quando ero residente a Fabra i Coats, dove ho iniziato le mie ricerche sul progetto che ho chiamato Food Chain, dove si inseriscono diverse opere come: Carnivore (2016), Herbivores (2017) Plastivoros (2017) e Pac-Art (2016). Pac-Art è un’opera che è stata molto ben accolta ed è continuamente esposta: consiste in una tipica consolle da videogiochi che ho creato a mano, dove Pacman è un artista che cerca di farsi spazio nel labirintico mondo dell’arte, dove gli stessi “fantasmini” sono altri artisti che minacciano e non “vedono l’ora” di ferirci e eliminarci dal gioco. Il tutto si incornicia tra le immagini del dipinto Saturno che divora i suoi figli, opera di Goya realizzata nella famosa Quinta del Sordo, ora conservata al Prado di Madrid. Mi interessava che fosse un videogioco perché è una chiara analogia con la realtà, con le sue regole, le sue strutture dove, letteralmente, ce la giochiamo!
Qual è il rapporto con la città in cui vivi?
A Barcellona, all’inizio è stato molto semplice, poi un po’ difficile. Sono arrivata nel 2010, ho frequentato la Escola Massana nel 2013, ma mi è costato molto entrare nelle dinamiche della città. Barcellona è costantemente in movimento, questo a volte ti abbraccia, a volte ti lascia fuori.
Cosa ne pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Vedo il mondo dell’arte contemporanea proiettarsi all’esterno in un modo diverso da come si vive al suo interno: quello che si vede dall’esterno è una prolifera abbondanza di eventi, cose, artisti, la città non si ferma, si arricchisce di proposte artistiche, ma tutto ciò è possibile grazie all’energia, alla volontà, all’amore per l’arte e per la cultura che molti professionisti offrono gratuitamente. La ricchezza sta nel talento ma non altrettanto nelle risorse economiche.
Di quale argomento vorresti parlare oggi?
Ti voglio raccontare una storia: un giorno, tra i tanti viaggi in autostop che ho fatto per il Sud America, mi sono ritrovata a Cuzco, in Perú, e precisamente a San Blas, un paesino pieno di colori, dipinti ovunque. Affascinata, decisi di entrare in un piccolo negozio che era anche una galleria. C’erano dei turisti stranieri che volevano comprare un dipinto, ma la donna che li stava servendo non aveva idea di come poter comunicare con loro. Così le chiesi “Vuoi vendere questo dipinto?!”, “Sì!”, “Allora, ti aiuto!” le risposi. Una volta venduto il quadro, le chiesi se fosse l’artista e mi disse di si. Non potevo credere che il suo non sapere qualche parola d’inglese potesse compromettere la sua economia e il suo lavoro. Così le dissi: “Facciamo un patto, io mi fermo un po’ di tempo a Cuzco, tu mi insegni a disegnare e a dipingere mentre io ti insegno le basi dell’inglese, in modo che tu possa vendere qualsiasi tuo lavoro…”, “Patto fatto! Domani portami un disegno di questo… e di questo…” mi rispose entusiasta e iniziai a disegnare! Fu come se da tutta la vita mi fossi dedicata a disegnare e a dipingere e da quel momento non ho più smesso!
A cura di Marco Tondello
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