Gli ho inviato una mail, lui mi ha lasciato il suo numero di telefono e dopo poche ore l’ho chiamato, era il 2018. Stavo (sto) lavorando ad un progetto editoriale, avevo bisogno di intervistarlo, direi che è stato un processo piuttosto lungo, se si ammette che due anni di intervista siano un processo piuttosto lungo. Pause, sia mie che sue ma soprattutto mie, tutto rientra nella paura della carta stampata, nell’irrimediabile, nell’errore (non nel refuso) per cui puoi soffocare, nell’errata valutazione, nell’esclusione. Dopo poco capisco che ogni risposta di Emilio Vavarella sarà un breve saggio estemporaneo in cui testare una qualche ipotesi. Capisco che mi sta mettendo alla prova, cambia il senso delle domande, dirotta l’intervista aumentando la pressione. Ma è la sua pratica da ricercatore, la sua poetica da laboratorio, è tutto coerente, mi confessa che – ogni ragionamento è una forma di trasformazione non lineare, plastica, di un certo corpus di pensieri. Ad ogni mia nuova domanda riparte sempre dall’inizio. È una costante messa in discussione delle risposte precedenti, quasi fastidiosa perché non riesco a valutare il limite, il perimetro delle cose:- è il mio modus operandi standard: un costante processo di ri-mediazione, ri-organizzatione e ri-elaborazione.-
Non posso fare altro che adeguarmi e cercare di respirare appena ne ho la possibilità.
Emilio mi risponde da Boston, dove frequenta l’università di Harvard (nel frattempo è diventato ricercatore), da lì a poco avrebbe esposto il lavoro The Google Trilogy al MAMbo nella collettiva THAT’S IT! Fotografie di dimensioni diverse, appese alla parete, a formare una specie di nuvola. Frame raccolti da Google Street View. Errori tecnologici. Dove il sistema si inceppa e cede alla lacuna: sfasature cromatiche, intersezione di immagini, volti riconoscibili dove la privacy scompare momentaneamente. Una nuvola sbagliata in cui l’errore crea piccole falle: dove insinuarsi e sgattaiolare via, dalla rappresentazione del mondo, dal suo censimento. Bologna in estate con un museo stracolmo, non avevo mai visto un’inaugurazione con così tanta ressa, ho fatto fatica a rintracciarlo, Emilio quella sera non aveva il telefono, l’intervista era iniziata da pochi mesi.
Probabilmente gli avevo già posto la domanda su come l’errore può essere una forma di smascheramento e di forza generatrice: qualcosa di vitale e benigno. Ci incontravamo tra la folla con la promessa di vederci più tardi. Gli accennai che avevo in mente di scrivere qualcosa su un suo breve film, Animal Cinema, in pratica un montaggio di video trovati nella rete, in cui animali si impossessano di una camera e iniziavano a filmare: brevi e forse involontari piano sequenza. Anche in questo caso sbagli o semplici distrazioni: dei mezzi caduti accidentalmente (?) in mano a polpi, uccelli, felini.
Mi piacerebbe mappare tutti gli errori della mia vita (almeno quelli che considero tali), metterli tutti in fila e capire per quanti kilometri si estendono. Oppure visualizzarli assegnando ad ognuno un’immagine, ma quale? A che immagine potrebbe corrispondere far male ad una persona consapevole di farlo? Forse una pagina gialla fosforescente, talmente accesa che ti fanno male gli occhi. Ma i miei errori sono colpe, quelli descritti da Emilio Vavarella sono mal funzionamenti, sono falle create nello stressare un sistema o nel sabotarlo (accidentalmente o consapevolmente). Ma probabilmente entrambe le accezioni funzionano come forme di riconoscimento. Capire dove un sistema può sbagliare, i limiti e le aperture dove si può infilare qualsiasi cosa. Colpa e mal funzionamento: l’opportunità di un collasso, di una degradazione o semplicemente forme nuove e inattese.
Era passato un anno quando vidi qualche sua opera in fiera a Bologna, lui non c’era, scambiai qualche chiacchiera con la gallerista, sculture in fila, nere, difficili da decifrare. The Other Shape of Things – 2. Datamorphosis. File di sculture digitali corrispondenti ai miti delle Metamorfosi di Ovidio. File che vengono aperti e visualizzati come successioni alfanumeriche. A queste Vavarella sostituisce il testo di Ovidio del relativo mito. Le Metamorfosi diventano il testo di programmazione, i file diventano sculture prodotte da stampanti 3d. Forme sbagliate, versetti nati per altro e trasformati in generatori di oggetti. Piccoli mostri innocui in plastica nera che contengono tutte le informazioni del testo classico: una forma di traduzione ingannevole, perché a noi incomprensibile. Una forma di riconoscimento che non passa attraverso la colpa (fortunata lei), ma attraverso uno sbaglio (slittamento) linguistico. Una corrispondenza informe tra il testo e l’oggetto, un’appartenenza non sicuramente intuitiva, ma tangibile.
Ci siamo ritrovanti al bancone del bar tra gli avventori della mostra in cerca di un ristoro mondano, non mi ricordo cosa abbiamo bevuto, ci saremmo persi dopo poco, lui verso Boston io verso la provincia emiliana.
L’errore è una via di fuga, un’opportunità, la colpa è una pagina gialla fosforescente a cui ti avvicini e gli occhi iniziano a farti male, sempre di più.