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E tu la vedi la gonna di Jenny?

Egon Schiele, Portrait of Edith
Egon Schiele, Portrait of Edith (dettaglio)

Se Borges ha ragione ed esistono solo tre storie, come è possibile trovare sempre rinnovata l’esperienza letteraria e artistica? I primi versi de Il Suonatore Jones di Fabrizio de Andrè ci ricordano che l’importante non è cosa raccontare, ma come raccontare.

Forse tutte le storie sono già state raccontate.
La sensazione che sia stato detto tanto, forse troppo, e che ora non rimangano vicende, immagini, suoni da trasmettere è una fastidiosa sensazione che paralizza l’attività generativa di chi crea e inibisce la spinta recettiva di chi fruisce l’esperienza artistica. Trasversalmente lo spettro del già fatto e del già detto incombe come una maledizione sul fare culturale, minacciando di inflazione generi e stili, destinandoli alla ripetizione. Il miraggio della novità sembra sfuggire alla presa dell’artista come nuvole sciolte dal vento, disperse in qualche stilla di interesse, piccoli dettagli inediti, barlumi di ispirazione.

Un aneddoto piuttosto eloquente a tal proposito riguarda Emilio Vedova, che ben esemplificava il problema evidenziando come per un artista la tela non sia mai realmente bianca, ma saturata dall’impronta che tutte le opere precedenti vi hanno impresso. Il peso di tutto ciò che c’è stato macchia in modo invadente il pensiero creativo, lo spinge nei meandri del timore di copiare, imitare, ripetere. Catarticamente Vedova – in qualità di insegnante all’Accademia delle Belle Arti di Venezia – gettava un secchio di colore sulle tele degli alunni, cercando di spazzare via quell’insopportabile candore, meschinamente riportante gli esempi di modelli irraggiungibili. Non importa quel che è venuto prima, quanto in alto sia arrivato chi ci ha preceduto; l’unica cosa che conta è trovare la propria voce. Del resto, se l’arte procedesse in direzione lineare e positivista, non avrebbe più molto senso dipingere dopo Michelangelo o scrivere dopo David Foster Wallace.

Egon Schiele, Female

Eppure, sfruttando l’appiglio e prendendo la letteratura come esempio, non solo sembra che ogni storia sia già stata raccontata, ma che addirittura ogni narrazione possibile sia stata già esaurita tanto tempo fa, alle radici della nostra cultura occidentale. A questo proposito, Jorge Luis Borges si spinge ad affermare che le storie raccontabili, fondamentalmente, siano solo tre: la battaglia, il viaggio, il sacrificio. Ovvero l’Iliade, l’Odissea e i Vangeli.

La battaglia per conquistare una città, come nel poema omerico, ma anche un conflitto personale, pure amoroso, dove il protagonista è spinto a mettersi in gioco pur consapevole, in alcuni casi, di stare andando incontro alla sconfitta. Il viaggio – per andare o per tornare – per vivere esperienze che nella stabilità non trovano spazio, per vivere travagli, problemi, incertezze, imprevisti e dirigersi in un luogo conosciuto – nel passato – o sconosciuto – nel futuro – dove trovare o ritrovare finalmente se stessi. E infine il sacrificio – di un dio o di un uomo che si è creduto dio – che racchiude la sofferenza, la pena, la spinta al raggiungimento di qualcosa va oltre l’umano. Solo tre storie, dunque, da cui si diramano infinite declinazioni differenti le quali guardano però, irrimediabilmente, a quegli archetipi fondamentali e fondanti a cui non si può sfuggire. La letteratura – e per analogia l’arte – non sarebbe altro che una sterminata variazione sul tema, che riprende e rigira continuamente tre ingredienti basilari, i quali racchiudono l’intero spettro del sentimento umano. Tutti gli scrittori, tutti gli artisti, finiscono un po’ per assomigliarsi e scambiarsi rimandi e debiti, suggestioni e ispirazione. A tal proposito è utile (e divertente) consultare il sito Literature-Map: inserendo nella barra di ricerca il nome di un autore a scelta, apparirà di seguito la costellazione dei colleghi che più si avvicinano al suo stile, al suo genere, alla sua impronta. È come se la letteratura mondiale fosse un gigantesco universo, dove ogni elemento è connesso ad un altro da un substrato comune a cui, attraverso continenti e secoli, tutti facciamo riferimento.

Egon Schiele, Standing Woman in a Green Skirt

Come è possibile, allora, che nonostante tutto ogni racconto ci appare come un’esperienza diversa, forse addirittura nuova? L’incipit di una celebre canzone di Fabrizio de Andrè, Il Suonatore Jones, risponde in modo poetico ed efficace al quesito:

In un vortice di polvere
Gli altri vedevan siccità
A me ricordava
La gonna di Jenny
In un ballo di tanti anni fa

Ciò che realmente importa in una storia non è (solo) la storia in sé, ma soprattutto il modo in cui viene raccontata. Lo stratagemma narrativo, l’intreccio, le sfumature dei personaggi, la potenza dei dialoghi, la sottigliezza dei passaggi, la forza evocativa di un’immagine. Le trame, come abbiamo visto, sono poche e tutto sommato semplici, forse addirittura banali; ciò che concorre a nobilitarle sono le sfumature, i dettagli che lo scrittore riesce a infondere e la particolare struttura che costruisce intorno alla vicenda. Una storia è più della sua sostanza, è la forma – il mondo, l’impalcatura che la regge – a rinnovare l’essenza di una narrazione, che tolta la voce unica del suo autore ricadrebbe nel topos. Allo stesso modo, deviando sulla pittura, quante espressioni differenti si possono dare dello stesso paesaggio? Pensiamo ai vedutisti, agli espressionisti e agli astrattisti. Un unico soggetto, tre interpretazioni radicalmente diverse. Eppure la sostanza è lì.

Egon Schiele, Nude woman with a skirt

È li ma non è lì, perché bisogna riuscire a vederla, bisogna riuscire a scorgere la poesia nel mondo e renderla arte, renderla storia. Così è possibile rintracciare nel vortice di polvere, dove tutti vedono siccità, la gonna di Jenny volteggiare in un ballo indimenticato. Quel che è fa de Andrè – tra l’altro ispirandosi a una poesia dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters – è una raffinata operazione di trasfigurazione semantica e poetica, che riesce a connettere due elementi distanti – la siccità e il ballo, la tristezza e l’amore, il presente e il passato – in maniera sorprendente, inaspettatamente evocativa. Ora che la vediamo possiamo percepirla e ci appare quasi inevitabile, ma senza la sensibilità dell’artista questa zona dell’esistenza sarebbe forse rimasta oscura. All’interno di una storia conosciuta, forse una storia d’amore giovanile, viene dunque a illuminarsi un ponte mai visto, quello tra la polvere e una gonna, capace di dare sapore a una vicenda di per sé semplice, oltre che indefinita. Sono queste connessioni nuove – identificabili generalmente come immagini poetiche – a dare nuova linfa alle storie, consentendoci di osservarle e viverle da prospettive mai sperimentate.

Perciò questi primi versi hanno la doppia valenza di rincuorare l’artista – che può ancora creare qualcosa di nuovo, nonostante il dato reale (la storia) sia sostanzialmente immutabile – e di trasmettere al fruitore l’essenza dell’arte, la quale risiede negli occhi di chi guarda e non nell’oggetto osservato. Detto questo, il processo creativo non vede affatto facilitato il suo compito, eternamente teso tra la percezione dell’artista e quella di coloro che ricevono la sua opera. Una coincidenza emotiva, una corrispondenza fra sensibilità, che va forse rintracciata nell’abilità dell’artista di levigare la parola o la tela, la nota o l’immagine fino a far esplodere la sua unicità nel grande abbraccio dell’universale.

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