Mulan, il live action della Disney in streaming dal 4 settembre. Un femminismo spicciolo per bambine che non vogliono dispiacere papà
Esce, non esce, alla fine Mulan è arrivato direttamente in streaming (a pagamento per un paio di mesi poi compreso nell’abbonamento Disney+) e… E, in confronto ai suoi fratelli (Cenerentola di Kenneth Branagh, Il Re Leone di Jon Favreau, etc), non è nemmeno così terribile (se si chiude un occhio).
Per questo live action la Disney ha scelto una regista, Niki Caro (che già con La Signora dello Zoo di Varsavia non aveva convinto troppo), promettendo attenzione e accuratezza rispetto all’immaginario tradizionale della cultura cinese (apparentemente, una regista donna cinese è stata impossibile da individuare). Se le intenzioni fossero delle migliori o solo uno specchietto per le allodole non è dato saperlo, ma non è andato tutto liscio. La storia è notoria, quella di una giovane ragazza cinese, intreprida e coraggiosa, che si finge uomo per combattere al posto del padre e difidendere l’impero dall’invasione nemica.
Mulan 2020 ha alcuni momenti abbastanza buoni (il primo cofronto metafisico tra Mulan e Xian Lang, la messa in scena e le scenografie delle battaglie) e nel complesso si fa guardare – soprattutto grazie a quel che rimane dello spirito moderno che caratterizzava già il film d’animazione del 1998 (vergogna, identità e accettazione) – ma le cadute di stile non mancano.
Dei wuxia pan a cui avrebbe potuto guardare (La foresta dei pugnali volanti, Hero, La tigre e il dragone, The assassin), purtroppo, questo live action non ha “rubato” nulla e si mantiene monocorde e privo di invenzioni interessanti dell’inizio alla fine; delle invenzioni estetiche e registiche da capogiro di Zhāng Yìmóu (Hero, Lanterne Rosse) o Ang Lee (primo regista contattato per il progetto) non v’è traccia. La fotografia insistentemente satura di colori squillanti e artificiali, soprattutto nella prima parte, è estenuante, si respira meglio tra montagne e deserto dove la regia rincorrorre efetti di luce naturale, nitida e tersa. A livello estetico i paesaggi hanno un ruolo di primo piano, e l’estetica da Windows XP è la vera vincitrice (riuscendo quanto meno ad appagare l’occhio).
La forza della protagonista viene presentata più come un superpotere, un qualcosa di magico, e non il frutto di dedizione, lavoro e allenamento (contravvenendo a tutta la tradizione dell’epica orientale), e tra gli antagonisti viene aggiunta una strega (Gong Li, versione cinese della Strega Nera di Brigitte Nielsen), elementi che traghettano la narrazione verso echi più occidentali (Fantaghirò e dintorni, per intenderci). Mulan diventa così emula di Elsa (Frozen), che raggiunge il pieno ottenimento della propria forza, dei propri poteri, accettando sé stessa (e quindi permettendo anche agli altri di accettarla).
Mulan punta tutto sulla semplificazione, indugiando in un minutaggio eccessivo – dove il ritmo, pur non venendo meno, non gioca sempre a suo favore – e rinunciando a qualsiasi livello di complessità. I pochi momenti comici scivolano nel ridicolo e gli effetti speciali – non sempre all’altezza – non aiutano.
Colpo di grazia lo scivolone paternalista della chiosa (“Dio, Patria e Famiglia”), perché va bene essere ribelli ma non troppo, rimanendo in questo fedele alla favola di 1600 anni fa in cui le bambine coraggiose e ribelli possono infrangere le regole ma stando ben attente a non dispiacere mamma e papà (tremenda la scelta di Carmen Consoli per la colonna sonora italiana, ottima invece Christina Aguilera che, 22 anni dopo, torna a cantare Reflection).