Scenari, orizzonti, sfide di un mondo che cambia. Diverse le esposizioni che hanno inaugurato, durante la scorsa settimana, in occasione della quindicesima edizione di Photofestival Milano. In attesa di scoprire quelle che apriranno prossimamente, eccone tre da non lasciarsi sfuggire.
Ren Hang, photography – Fondazione Sozzani fino al 29 novembre 2020
Seni, membri, natiche, vagine. Schiene che si accartocciano, braccia che s’incrociano, corpi che si mischiano ma non si fondono mai del tutto: per quanto vicini, pur sempre soli. Non c’è sensualità né volgarità nei nudi di Ren Hang (Changchun, Cina, 1987 – Pechino, 2017). C’è piuttosto desiderio, ansia, forza, affermazione di libertà. C’è un’ironia che non fa sorridere, un’onestà che colpisce dritto al petto. Per il fotografo cinese, morto suicida ad appena 29 anni, è solo nudo che l’uomo si mostra per ciò che è: puro e vulnerabile. Poco interessato alla forma quanto alla sostanza, l’artista scattava con una compatta 35mm e una pellicola economica, impiegando spesso il flash, rapido e brutale come le sue immagini. Ragazzi e ragazze rappresentano la giovane generazione cinese di cui egli stesso faceva parte, accompagnati da animali selvatici, accostati agli alberi di una foresta o collocati in un contesto urbano a cui paiono estranei.
Di natura provocatoria, le fotografie di Ren Hang sono state considerate una forma di ribellione alle convenzioni di un regime restrittivo, quello della Repubblica Popolare Cinese, in cui i nudi e l’editoria indipendente sono considerati illegali. Eppure, l’artista non contestualizzava le sue immagini a livello politico o culturale, ma si limitava a fare “ciò che mi viene naturale”. Tra le sale immacolate della Fondazione Sozzani, i corpi emergono dai muri bianchi in tutta la loro imperfezione, talvolta accompagnati da una citazione dell’artista. Quest’ultimo, infatti, teneva un blog su cui annotava i propri turbamenti, causa di una depressione di cui non si è mai liberato. Una mostra collaterale, situata nella galleria sottostante, è dedicata al rapporto di Hang con la moda, ambito nel quale ha più volte messo a frutto il proprio talento: una serie di note riviste del settore testimoniano la capacità del fotografo di portare la fashion photography verso nuove inesplorate direzioni.
Beth Moon, selected works – Salamon Fine Art fino al 1° ottobre 2020
Alberi, alberi e ancora alberi. Sono i protagonisti delle acqueforti di Federica Galli, artista cremonese scomparsa nel 2009, di cui Palazzo Cicogna ospita l’omonima fondazione. Sono le magnolie, gli olmi e gli altri alberi secolari che abitano il parco retrostante, e il cui profumo si insinua dalle finestre spalancate. Infine, sono i soggetti a cui Beth Moon ha dedicato buona parte della sua opera, inseguendone la bellezza in giro per il mondo. L’albero, nella sua imponenza discreta, è testimone immobile che assiste al susseguirsi delle vicende umane. Che lo si creda vivo e pensante o mero complemento d’arredo, è talvolta capace di ricondurre l’uomo all’essenza stessa della vita.
A rivolgervi infiniti sguardi, la fotografa (c. 1956) originaria del Wisconsin ha iniziato quando si è trasferita in Inghilterra, paese che vanta la maggiore concentrazione di alberi secolari. Da allora li ha inseguiti per i cinque continenti, raccogliendo immagini capaci di sintetizzare concetti di vita, memoria, sacralità: una selezione di queste fotografie si staglia sulle pareti della galleria Salamon Fine Art, in un delicato dialogo con le incisioni di Federica Galli. Beth Moon ha impiegato la tecnica al platino/palladio, che richiede un procedimento lento e complesso, capace, nel suo caso, di acquisire la stessa valenza dello scatto stesso. Proprio come gli alberi secolari, le stampe di questo tipo possono durare centinaia di anni senza alterarsi. In mezzo alle fotografie analogiche in bianco e nero, che godono di fascino antico, due scatti sono invece digitali a colore, frutto di lunghissimi tempi di posa: catturano, intorno all’albero, il cielo stellato, componendo un inno alla natura e alla sua sfrontata bellezza, nell’epoca in cui troppo spesso ne minacciamo la conservazione.
Giancarla Pancera, Ironie metaforiche – Spazio Kryptos fino al 22 settembre
Un chiaro filo conduttore lega le fotografie urbane di Giancarla Pancera, che si colloca nell’ambito della street photography, a quelle del più noto Jonathan Higbee: le coincidenze visive, ricercate e ironiche, in un contesto urbano fatto di caos e disordine. Se Higbee opera a New York, però, Giancarla Pancera si sbizzarrisce tra le vie di Milano, e per questo ci appare forse più familiare. Con occhio attento, la fotografa coglie quei momenti in cui determinati elementi (umani e non) si mescolano casualmente a crearne un terzo, riuscendo nell’impresa di restituirne l’effetto nella fotografia. La mostra presso lo Spazio Kryptos, curata da Roberto Mutti e Associazione Artme, raccoglie una serie di questi curiosi scatti, che gettano luce sull’interazione tra ambiente e persone, specchi e cartelloni pubblicitari, in un flusso continuo di iperstimolazione visiva in cui, spesso, il dettaglio sfugge a chi non si guarda bene intorno. La strada diventa un set in cui cogliere, oltre il marasma di immagini e suoni, la curiosa banalità del tutto.