Ha inaugurato il 3 settembre The Alphabet, la mostra dell’artista veneziano Michele Bubacco nella storica galleria Ikona di Živa Kraus, a Venezia. Protagonista la serie di dipinti su copertine di LP, le cui immagini originarie, che la pittura ha inghiottito e metabolizzato,diventano cardine ed elemento seminale per l’improvvisazione pittorica.
C’è un suono che riecheggia in galleria, quando meno ce lo si aspetta; forse,il verso di un uccello. È una mostra ibrida, quella che Michele Bubacco –nato a Murano nel 1983 e trasferitosi a Vienna ormai 5 anni fa – presenta nella storicagalleria veneziana, dove sarà visibile fino al 1° novembre. In “The Alphabet”, le opere sono frutto di una stratificazione, a tratti conturbante, tra il medium pittorico e immagini preesistenti. Come lettere di un alfabeto, che mescolandosi tra loro formano parole sempre nuove, la combinazione dei due diversi linguaggi visuali suggerisce all’artista soluzioni pressoché infinite.
Il processo creativo di Michele Bubacco è libero e in costante divenire. Ironico, scavalca con falcata disinvolta i confini tra le discipline. Sì, perché “nel discorso pittorico tutto si può mescolare. La pittura stessa lo suggerisce”.
Con la giusta dose di improvvisazione, le opere dell’artista hanno origine in una “somma”, e i loro sviluppi sono imprevedibili.Ce l’ha raccontato lui stesso, in un’intervista.
C’è un filo conduttore nelle immagini che presenti in mostra?
Il corpo ritmico della mostra erano questi lavori su copertina di LP (che dentro hanno ancora il disco, ma sono diventati oggetti puramente pittorici), dove ho cercato di salvare i frammenti fotografici delle edizioni dei dischi, che ho usato come punti cardine per l’improvvisazione pittorica. Quindi c’è una forma di raccolta e di registrazione che parte fuori dallo studio, e poi cerco di riorganizzare con gli elementi che mi trovo in mano. Passo da un territorio all’altro. Non mi interessa attenermi a un solo medium,quello della fotografia o quello “purista” della pittura. Sono più interessato a uscire dai codici di un linguaggio, all’interno di una stessa opera, e fare una capriola in un altro linguaggio, mettendo così in discussione lo stesso lavoro in corso.
Quelle che si trovano nel tuo lavoro possono essere quindi immagini preesistenti, nelle quali ti imbatti nella vita quotidiana, o magari anche fotografie scattate da te?
Sì. Sono fotografie che faccio, senza un secondo fine; sono registrazioni di realtà fatte in maniera disimpegnata, come le facciamo tutti. Il rapporto tra la registrazione casuale e l’istinto di voler approfondire un discorso, però, è frutto di una scelta. Che a volte è immediata, e va un po’ più veloce del ragionamento. C’è una forma di consapevolezza. Inizia una somma, tra la cosa che trovo e la mia pittura. È un’addizione che inizia, ma per completarla ho bisogno dei miei tempi. La porto in studio, e magari ci passo anche uno, o due anni.
Ti capita di modificare le immagini in più riprese, anche a distanza di tempo?
Sì. Mi capita di lavorare a più opere simultaneamente. Capita quindi anche che un lavoro diventi tavolozza di un altro, mescolando i colori su un tavolo, che diventa supporto di quello successivo. Mi interessa molto che la fine di un lavoro possa diventare l’inizio di un altro, come in un rapporto di continuità e di metamorfosi. Uso la pittura perché ha un DNA rivolto al cambiamento: si presta bene a cambiare le immagini in corso. Regge fisicamente la possibilità del cambiamento.
Per questo dipingi a olio, immagino, tecnica che per i lunghi tempi di asciugatura consente di fare molte modifiche
Sì, utilizzo l’olio. La mia è una pittura “digitale”, nel senso che prevalentemente usole dita. Che non è una questione di “pittura selvaggia”, ma è proprio un fatto di avere un rapporto tattile e di modifica, per modellare la narrativa in corso.
Le tue opere sembrano “mangiare” o “digerire” le immagini sottostanti, le immagini “trovate”.È un modo per difendersi dalla valanga di immagini a cui siamo esposti ogni giorno, di metabolizzarla?
Mi rendo conto che al giorno d’oggi ci sia una forma di pesantezza e sovraccarico di immagini, ma io ne colgo soprattutto i tanti stimoli verso la modifica, sul modo cioè in cui potrebbero impattare sulla mia pittura e farle cambiare rotta. L’immagine mi stimola a pensare e a creare altre immagini. Non è una cosa che mi dà noia. Non mi sento affatto succube di questa valanga di stimoli visivi, perché anzi ne vedo le tante possibilità di modifica; sono stimoli per destrutturare e dare nuovi significati alle mie opere.
Leggevo che hai cominciato la tua professione di pittore come “ghost painter”. Come ha inciso sulla tua formazione, che hai detto essere di autodidatta?
Da ragazzo la pittura mi interessava molto, anche se non dipingevo moltissimo. Poi mi è capitato di trovare questo ingaggio, e ho cominciato a riprodurre quadri per conto di un artista veneziano. L’esperienza è stata molto stimolante: ricevevo la commissione di fare un’opera in stile Freud, o Francis Bacon, Balthus, o Yan Pei-Ming, o iperrealista americano. E io venivo pagato con uno stipendio. Per certi versi sembrava una scuola, perché di volta in volta occorreva che mi studiassi le tecniche. Mi consultavo con altri ghost painter in città. È stata proprio come una scuola. Spesso ero da solo in atelier, e riuscivo a fare delle sperimentazioni su quello che interessava a me, a livello gestuale; poi coprivo tutto, e sulla superficie restavala richiesta del committente.
Quindi, questo essere costretto a variare e imitare diversi stili, alla fine ti ha aiutato a trovare il tuo linguaggio, la tua cifra stilistica
Diciamo di sì. All’Accademia lavoravano degli amici, e anche lì facevano qualcosa di simile. Ti facevano dipingere “in stile” di qualche artista noto. Era anche, col senno di poi, molto divertente, e ringrazio il destino per avermi dato quell’occasione, anche se all’epoca a volte mi sembrava ingiusto, perché lui spacciava tutti lavori per suoi.
Ho letto una tua citazione che mi è piaciuta particolarmente, in cui dicevi che il dipinto “è un possibile cavallo di troia da salotto”. Intendevi dire che i tuoi dipinti – non sempre di facile interpretazione – possono essere veicolo di tematiche che non si dichiarano a prima vista, ma che sono comunque presenti? Ci sono dei temi ricorrenti nel tuo lavoro?
I miei quadri sono rapporti tra elementi. Mi interessa l’improvvisazione tra i rapporti degli esseri umani; questa tensione che c’è nei rapporti e che è essa stessa una forma di improvvisazione. In un dipinto, una variazione anche minima, di pochi centimetri, ad esempiodi una mano, può suggerire significati anche radicalmente diversi. Mi piace interpretare i simboli del gesticolare, ad esempio delle mani. Noi italiani tipicamente gesticoliamo molto.
Adesso nei social media usiamo tante emoticon, che sono una forma di comunicazione, un alfabeto a sé, però sono molto “fissi”, come dei timbri in cui è cristallizzato un significato il più delle volte univoco.Mi interessa invece prendere gli elementi del gesticolare e cambiarli di asse, per vedere cosa succede, e come cambiano i rapporti nel quadro. Mi piace anche che questo “gesticolare” che rappresento mantenga una sorta di ambiguità, e che vada contro quella dittatura della comunicazione standardizzata che si usa oggi sui social. Anche nel gesticolare tradizionale italiano ci sono delle variazioni nel tempo, frutto di cambiamenti culturali. I gesti nel mondo digitale sintetizzano tanti discorsi, ma omologano molto la dialettica. Diventano degli scudi, per non dire nulla del nostro pensiero. Nel discorso pittorico tutto si può mescolare. La pittura stessa lo suggerisce. Mi interessa trovare degli ingredienti che facciano da specchio a questa condizione della comunicazione.
Questa tua affermazione mi fa venire in mente l’opera“Higitusfigitus”, che rappresenta un gesto che, se rovesciato, cambia totalmente di significato. Dalla quale, tra l’altro, esce quel famoso suono
È una cassa acustica. L’ho fatta costruire da un artigiano che lavora con l’elettronica. Ho dipinto proprio sulla tela dello speaker. Ho poi registrato un suono che avevo imparato a fare quando ero piccolo, forse erail verso di una tortora.Non ricordo bene a che animale appartenesse, ma lo sentivo molto spesso. Il gesto che ho dipinto sopra è uno dei più usati. È iconico, ma ribaltato in verticale cambia senso. Ho associato la figura a un suono che non ha nessun legame con essa, tranne che un’associazione di idee (ndr: forse per la posizione che la bocca deve assumere per riprodurre quel suono). La forma che assumono le dita crea un passaggio vuoto, e il suono fa da richiamo invita ad avvicinarsi. Il quadro diventa un orologio a cucù, o forse una trappola.È un pezzo che ho costruito interamente e Venezia, durante il mese di permanenza in città. Anche il suono l’ho registrato in uno studio di registrazione vicino a San Giacomo dell’Orio.
Quest’opera è quello che intendevo con “cavallo di troia da salotto”: ha un’immagine semplice,ma è portatrice inaspettata di suono, quindi trasporta un’altra esperienza all’interno della sua struttura.
Trovi che l’ironia abbia un posto importante all’interno delle tue opere? Come potrebbe suggerire “Higitusfigitus”, di cui mi hai appena parlato?
Penso di sì. Lavoro spesso in studio, e con l’opera è una botta e risposta. L’ironia mi serve nel lavoro per trovare una zona franca. Mi aiuta a trattare anche cose che non mi vanno bene – personali o sociali – e l’ironia riesce a darmi la possibilità di cambiamento, di svolta imprevista. Quando dipingo tenendo un’immagine preesistente come perno, l’ironia può essere il cambiamento rispetto al tema dell’opera.
In Italia – è opinione diffusa – il sistema non sostiene abbastanzagli artisti emergenti. Come ti sembra la situazione a Vienna?
A Vienna l’artista è una figura della società molto rispettata. C’è una differenza abissale. Il cambiamento si percepisce nettamente: lo Stato, la società, insomma chiunque ha un modo diverso di considerare la figura dell’artista, e la cultura in generale. Viene considerato per lo Stato una vera e propria risorsa. È vero che l’Italia non ha molta meno attenzione verso queste tematiche, anzi, rischia di sabotare l’arte di oggi, di perdere per strada delle grandi intuizioni.
Qui anche gli ospedali possono comprare l’arte contemporanea – che trovi nelle sale d’aspetto – oppure la si può trovare in alcune stazioni della metro. È facile imbattersi in arte pubblica, anche alle poste. C’è sempre una finestra aperta verso l’immaginario artistico. Ci sono inoltre dei sostegni: durante il lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19 lo Stato ha stanziato molti soldi per l’arte, anche erogando dei buoni stipendi mensili agli artisti che vivono qua. Così come, ad esempio, ci sono incentivi per creare dei cataloghi. Qui inoltre la tassazione che riguarda l’ambito artistico èmolto bassa. Ho la sensazione, poi, che il museo siaconcepito come una zona franca, che resti uno spazio libero, concesso agli artisti per la sperimentazione, come un luogo dove gli artisti possono avere libero sfogo.
Hai in programma altre mostre nel futuro prossimo?
Sì. Una mostra collettiva a Milano “L’altra individualità.Nuova figurazione nell’epoca dell’evanescenza” (ndr: L’esposizione presenta le opere di ventitré tra i maggiori esponenti della nuova pittura figurativa italiana. A cura di Domenico Russo, Andrea Tinterri e Luca Zuccala. Dal 29 ottobre al 20 dicembre 2020, nello spazio di State Of, in via Seneca 4 a Milano), e più avanti una mostra di soli disegni a Vienna, allo spazio espositivo Song Song. Qui esporrò dei disegni che, realizzati su due lati dello stesso foglio, si sono “fusi” tra loro, anche se non avevano a che fare l’uno con l’altro.Mi interessa molto la sincronicità teorizzata da Jung. Quando due elementi si incontrano, che originariamente nonappartengono alla stessa sfera, ma che possono creare una coincidenza di comprensione di qualcos’altro.
Questo principio lo tieni sempre in mente anche quando dipingi?
Sì, anche quando dipingo sopra una foto, o sopra un mio stesso dipinto di qualche tempo prima, o quando dipingo e c’è un suono, nello stesso oggetto.
THE ALPHABET
di Michele Bubacco
A cura di Živa Kraus
dal 3 settembre al 1novembre 2020
IKONA GALLERY
Campo del Ghetto Nuovo, Cannaregio 2909 – Venezia