Ultimi giorni per visitare le grandi personali e antologiche nel Salento che, da quest’estate, hanno abitato spazi istituzionali e luoghi pubblici. Da qualche anno infatti, una certa “new wave” culturale del territorio è attiva e interessata a organizzare eventi culturali nei grandi spazi pubblici, rivolti ad un pubblico ampio ed eterogeneo, grazie a curatori indipendenti, collettivi e operatori culturali.
Presso Il MUST, Museo storico della di Lecce, è visitabile, da maggio scorso fino al prossimo 15 Novembre, l’antologica dedicata a Gianni Leone, a cura di Rosalba Branà e realizzata dal collettivo Kunstschau Contemporary Place in collaborazione con la Fondazione Pino Pascali di Polignano a mare, dal cui archivio provengono le opere esposte. La mostra consta di 60 opere fotografiche divise in 3 sezioni che riassumono la ricerca visiva del fotografo.
Al piano terra apre la sezione “ La città, i borghi, il mare”, un viaggio nomadico nei paesaggi scanditi dalla periferia all’entroterra. Borghi e mare, in un’esplorazione contrassegnata dal comune denominatore di una luce traboccante. Le periferie sono il “non luogo” di indagine più approfondita, in particolar modo quella di Taranto, dove l’occhio di Leone si sofferma e gli scatti a seguire costituiscono la sezione “L’industria e la periferia”. Nell’ottica di composizioni fortemente connotate da geometrie, tetti triangolari di capannoni, circonferenze e cilindri di silos, si svolge la ricerca sulla società dei consumi e sui i fattori di crisi dell’accelerazionismo capitalista. Dalla solidità degli edifici industriali, la narrazione prende una direzione investigativa sulla forma e sulla geometria perlustrando i luoghi antropici. A questa narrazione è dedicata la sezione “Forma, superficie e architettura”, collocata al piano superiore del museo storico, dove si modula la ricerca compositiva strutturale tra pieni e vuoti, ombre e dimensioni abitabili o incombenti sul paesaggio. Una scrittura di luce che fa della stessa la protagonista reale non solo degli scatti, ma anche della terra che illumina, smantellando piani cronologici e specificazioni geografiche. E’ il sud, quale che sia la sua latitudine che viene rilevato, perché si impari a leggerlo attraverso i suoi segni e a decodificarlo attraverso i suoi paradossi, come si fa con le legende delle tavolette geografiche.
Ancora a cura del collettivo Kunstschau in collaborazione con RTI Theutra – Oasimed, visitabile sino al 1 novembre nelle sale del piano superiore del Castello Carlo V, la personale “L’aria del Tempo” dedicata a Massimo Sestini. Il fotoreporter, che ha popolato copertine di autorevoli riviste internazionali, con il suo osservatorio zenitale, non solo astrae, ma cristallizza le prospettive di un’intera storia umanitaria, o, perlomeno, quella che lui stesso si è trovato a vivere e documentare. Un occhio umano, distaccato perché aereo, ma comprensivo e partecipe che raccoglie ciò che resta restituendolo, panoramicamente, in una visone unitaria e coerente al sentimento con cui indica le drammaturgie umane. Avanzano, attraverso i suoi 40 scatti allestiti nelle sale del Castello, narrazioni multiformi tra materia e corpi; così i protagonisti sono ora i resti e le lamiere negli scatti della strage di Capaci, ora le macerie di Amatrice, poi le fughe e le diagonali dei corpi in scontro negli scatti del G8 di Genova. Ritratti come un corpo unico i migranti su un barcone al largo delle coste libiche, sono i protagonisti della sua più famosa fotografia “Mare Nostrum”, icona recuperata alla memoria non solo all’indomani di critici decreti sull’immigrazione, ma di recente venuta alla ribalta per utilizzo improprio che ne avrebbe fatto il leader della Lega. Vertiginosi e intensi, i punti di osservazione di Sestini si mostrano come perpendicolare visiva, di una tra le più complesse pagine di storia.
Il tema del paesaggio sembra essere un comune denominatore sotteso alle mostre in corso. Sugli aspetti strutturali e architettonici del paesaggio si è articolata la mostra Sta come torre, inizialmente, dal 5 agosto diffusa su 865 km di costa pugliese, e dal 30 settembre fino al 29 novembre, visitabile presso il Museo provinciale Sigismondo Castromediano. La mostra, a cura di Paolo Mele e promossa da regione Puglia e dal Teatro Pubblico pugliese, ha convogliato il lavoro di sette artisti Luigi Presicce, Pamela Diamante, Lucia Veronesi, Luca Coclite – Giuseppe De Mattia, Elena Bellantoni e Gabriella Ciancimino, per sei torri, avamposti di altrettante province, Vieste, Trani, Polignano a mare, Brindisi, Tricase porto, Taranto. E’ la geografia della diversità territoriale, rappresentata e custodita dal simbolo antico delle torri di vedetta, che ha stimolato la riflessione. La sentinella di pietra fa da vedetta al suo lembo di terra, comunica in qualche modo segnali rilevati, allo stesso modo gli artisti collocati con i loro interventi, installazioni e fotografie, rivendicano l’abilità di farsi hub di un territorio, comunicando tra loro, costituendo una rete di dati e di azioni. Una trama unica, evidente anche dalla continuità tra le opere in situ, infatti ciascuna torre, oltre adaver ospitato l’azione dell’artista assegnato includeva anche un’opera dell’artista della torre precedente e una dell’artista presente nella torre successiva. Lo sguardo privilegiato della torre è diventato quello dell’artista, che si ripercorre nelle sale del museo con la visita guidata con il curatore.
All’interno dello stesso Museo Provinciale, la grande mostra dedicata a Fernando De Filippi, prorogata sino al 27 Novembre e promossa dal Polo Biblio Museale, curata da Lorenzo Madaro e Brizia Minerva, intitolata semplicemente “Arte”. Nella stessa iconoclasta semplicità la parola ricorre, da alcuni giorni, su cartelloni 6*3 della città, nel pieno della sua “autocombustione”. L’operazione percorre tutta la città, coinvolgendo centro e margini più periferici. E’ nelle strade, con l’arte pubblica, che De Filippi torna con l’arte delle affissioni che praticava negli anni settanta nella metropoli che lo adottò, New York. E’ il potente ruolo sociale di una condivisione dai tratti spontanei e involontari, parametri intrinsechi solo alla strada, ad essere di nuovo in grado di discutere circostanze, ruoli, necessità. Un’opera all’aperto che fa irruzione nel quotidiano, che non ha un pubblico, ma può contare su una stratigrafia umana fatta di abitanti, avventori, a cui indicare o suggerire la prospettiva di un’evasione fuori dai contesti stabiliti. L’arte fuori dai suoi circuiti, al contempo capace di riappropriarsene debitamente, come fa l’antologica dedicata, presso il Museo provinciale Sigismondo Castromediano, agli 80 anni dell’artista, prorogata sino al 27 novembre. Sono oltre cinquanta le opere selezionate per ripercorrere sessant’anni di ricerca artistica nelle pieghe degli snodi più cruciali della storia e della società. Il percorso segue una certa cronologia, anche di esperienza e tecniche usate, dunque è multiforme e passa dai dipinti, alle fotografie, all’utilizzo di mezzi propagandistici e di claim ad attitudini più performative come quelle che hanno a che fare con il fuoco, sperimentate nei primi 2000. Emerge sempre la coscienza in De Filippi, dell’arte come strumento di realtà, di militanza politica, che passa attraverso le iconografie, simbolo di ideologieche non rispecchiano l’artista, ma che l’artista rappresenta come sintesi estrema di una visione istantanea. Da Lenin si passa a vedere le scritte realizzate con la sabbia che anticipano gli striscioni e quell’expertise di strada con cui De Filippi anticipa la street-art con lo scopo di giungere a tutti, specialmente a chi non è avvezzo all’arte. Pittura, acquerelli e grandi tele, raccontano il suo vagare per luoghi e paesaggi differenziati nell’ottica di una perseverante militanza politica e civile, ma scandiscono la relazione crescente con elementi scultorei del passato, come colonne e templi, e con elementi naturali, come alberi. Una trascrizione arguta del presente filtrato da simbologie mitiche. Un esemplare Prometeo, che rubato il fuoco agli dei, ne fa strumento di compendio per una umanità sempre pronta a rigenerarsi dal suo stesso seme.
Ci si sposta nella città porta d’Oriente, Otranto per MakeThis Earth Home, di Maria Domenica Rapicavoli a cura dell’associazione cijaru, di Francesco Scasciamacchia, con la ricerca scientifica di Davide De Notarpietro, visitabile sino al 1 novembre. La mostra, frutto della residenza dell’artista presso la cittadina pugliese, ha allestito, da giugno, gli spazi della Torre Matta e del lungomare.Il pianeta terra come casa da saper abitare, ripartendo dalla conoscenza naturale e identitaria del luogo che ci ospita, la grande madre terra e gli elementi naturali e generativi circostanti. Queste le tracce da cui ha tratto i suoi interventi site-specific l’artista.
Sono “nessi ancestrali”, l’opera con cui l’artista affronta il legame profondo del territorio con la preistoria; elaborando i graffiti rupestri dellaGrotta dei Cervi di Porto Badisco, l’artista elabora elementi scultorei sospesi con fili di nylon che, con la loro ombra ondivaga nel vano della torre, evocano i pittogrammi a testimonianza della venerazione del culto della “Grande Madre”. Anche nella parte superiore della torre, l’evocazione degli elementi primordiali e cosmici proseguono con “giorno del sole”, che proiettando un cerchio di luce sul pavimento, evoca un piccolo microcosmo solare, alludendo inoltre al legame tra questa stella e i numerosi dolmen diffusi nel territorio, connessi a pratiche cultuali ed usanze di popolazioni indoeuropee. Dalla superficie si scende nel livello inferiore, con “i due mari”, installazione che coglie e rielabora il legame con le popolazione greche ed egee, sulla rotta del mar Mediterraneo.
Tra vasi di terracotta ricolmi di acqua, installazioni video che ripropongono l’immersiva intimità delle acque del canale otrantino e la relazione tra luce solare e le pietra di cui è costituita la torre, viene evidenziato il valore dell’archetipo e del mito. Il lavoro dell’artista risulta non tanto devoto ad un richiamo alla memoria fossile di un territorio preistorico, quanto ad una consapevolezza del luogo, da accordare ad una storia mutante e in divenire. E’ in cartapesta la riproduzione ingrandita di una conchiglia trovata presso la Grotta dei Cervi, e che rilascia una eco ogni cinque minuti all’interno della torre evocando il suo ruolo di antico strumento a fiato usato durante celebrazioni rituali. La risalita è un continuum cronologico di storia, elementi, materia naturale e creato artificiale del luogo. “Fuoco” è l’opera realizzata con la terra di bauxite, elemento indicatore dell’attività industriale ed estrattiva conclusasi solo nel 1976. Mentre sul lungomare si scorgono le sedute, ispirate a stampi di età neolitica, nell’atto di riappropriarsi dello spazio di una sospirata socialità, il neon campeggia sulle mura antiche, richiamando non solo il titolo della mostra, ma prospettando un futuro illuminato, più che luminoso, possibile solo se intenzionati ad abitare la terra responsabilmente, come una casa.