Ancestrali forme recuperate da un immaginario collettivo di memorie arcaiche. Forme di vita primordiali che si fanno corpi indeterminati, che evocano tracce di una natura primigenia. Anatomie informi che sono l’esito di assemblaggi materici e di tecniche tradizionali – come la lavorazione della cartapesta – e contemporanee. La scultura di Lorenzo D’Alba (Uggiano la Chiesa, 1998) ruota intorno a un mondo originario, in cui l’importanza dell’immaginazione diventa fondamenta per la costruzione di una realtà fenomenica nuova, che si fa simbolica. L’artista nasce a Lecce, si diploma in arti figurative al liceo artistico e si trasferisce a Milano per studiare pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua ultima mostra è UPGRADE (settembre 2020), una collettiva da Dimora Artica.
Cosa significa essere un artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Non so di preciso da quanto faccio l’artista, lavoro con le immagini da sempre. Ho sempre pensato che l’uomo, dall’invenzione del linguaggio, si sia un po’ dimenticato di quanto la visione abbia giocato un ruolo importante per la propria conoscenza. Credo di aver sempre utilizzato questa mia possibilità di creare forme per fornire il frammento di una visione che si completa nell’immaginazione di chi la guarda. Certamente ora ho molta più consapevolezza della mia responsabilità in quanto creatore di immagini. Credo che in quattro anni – da quando ho cominciato a preoccuparmi in maniera più attenta della terza dimensione e del rapporto delle mie opere con lo spazio – il mio lavoro abbia maturato un senso di appartenenza agli occhi di chi lo guarda incrociandolo nel proprio spazio vitale. Un aspetto dell’opera forse anche superficiale ma che prima non era al centro del mio lavoro, e di sicuro non deve mai venire meno.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Il mio lavoro ruota attorno a un’indagine sulle proprietà dell’oggetto. Quando una delle mie sculture si posiziona all’interno dello spazio occupa una parte di mondo, come facciamo tutti quanti noi. Per cui si tratta di un’identità con la quale dobbiamo inevitabilmente scontrarci. Ogni lavoro è un’entità che nasce dall’assemblaggio di diversi elementi: generalmente si tratta di diverse forme che cercano di imitare un immaginario preesistente, spesso provengono da una ricerca che sto conducendo sulla paleontologia e sul rapporto dell’uomo con il mondo al momento della sua origine. Si tratta di un mondo di cui, ovviamente, l’uomo non ha nessuna memoria spaziale o temporale, eppure vive nella fantasia di chi si prende il tempo per immaginarlo. Credo sia inevitabile che quando queste parti sono composte all’interno di un mio lavoro, ognuno guardi le sculture come dei frammenti di un mondo diverso, magari parallelo, magari inesistente. Fino a questo momento ogni mio lavoro ha sempre costituito un oggetto, quindi un’identità a se stante, che colloco nello spazio senza mediazioni espositive, perché ogni opera necessita di un contatto diretto con l’ambiente in cui si trova. Ora una delle mie prerogative è sfruttare il potere dell’oggetto di contaminare uno spazio. Da qui l’esigenza di lavorare su degli interventi site-specific in cui una moltitudine di oggetti sono già presenti, in modo tale che la visione non sia relegata solo alle sculture che propongo ma modifichi la percezione che si ha dell’ambiente stesso, costruendoci dentro un paesaggio inedito. Questi interventi saranno il nucleo di una serie di progetti espositivi a cui sto lavorando.
Come ti rapporti con la città e il contesto culturale in cui vivi?
Ho la fortuna di vivere in bilico tra due terre che stanno dando molti stimoli alla mia progettualità. Vengo da un piccolo paese del sud Italia, in cui sicuramente ho interiorizzato una serie di forme, di colori, di pratiche che ritornano spesso nel mio lavoro. La cartapesta, che da due anni è ritornata in maniera incisiva nella costruzione dei miei lavori, è una pratica di cui ho fatto tesoro nei primi anni di formazione. Milano, invece, è una città che non ha un’identità ma viene fuori dalle identità dei vari microcosmi culturali che la vivono e la costituiscono e credo questo sia fantastico! Certamente è una città in cui c’è la possibilità di immergersi in un circuito di intraprendenza e di tenacia, credo siano le fondamenta nel lavoro di un artista e se ci si applica in maniera autentica e onesta, sono sicuro che il risultato sarà soddisfacente in tutti i sensi.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Sono certo che un sistema serva laddove si concentra una mole di lavoro. Nell’arte, contrariamente ai luoghi comuni, la concentrazione di idee e delle dinamiche per renderle concrete è tanta, e il sistema serve a fare sì che l’energia impiegata per questo lavoro non vada mai dispersa. Posso dire che nel momento in cui si decide di impiegare le proprie energie nel lavoro artistico, senza che nessuno degli sforzi vada a dissiparsi, è fondamentale che ci si senta parte di un sistema in cui il proprio contributo non è superiore o inferiore a quello di altri, solo diverso. La storia dell’arte ci insegna che il primato dell’arte si conserva nella diversità delle proposte di ogni autore, e nella moltitudine di geni che hanno sempre accettato il confronto con queste diversità nello spirito costruttivo del dialogo. Dovremmo fare tesoro di questo.
Di quale argomento, oggi, vorresti parlare?
Non sono sicuro di avere un argomento. Ho tante considerazioni che sono parte del mio quotidiano ma sono anche i tasselli di un unico pensiero che determina la mia attitudine alla vita, e quindi il mio modus operandi. Da una parte la ricerca che è alla base del mio lavoro prende a piene mani da sfere disciplinari molto diverse tra di loro. Mi interrogo sulla visione contingente dell’evoluzione che appartiene alle teorie di Stephen Jay Gould. A modo mio cerco di studiare la fisica, perché questo mi consente di avere una prospettiva sullo stato primordiale del mondo, e quindi mi permette di avere una visione, seppure virtuale, del lunghissimo arco temporale che mi ha preceduto e di cui vorrei conoscere ogni fase, ogni evento. Non nego che a volte sento il bisogno di affidarmi a delle credenze che superano l’esercizio metodologico e denotativo delle scienze. Certamente viviamo in un momento storico in cui è molto facile riuscire a trovare le risposte a un fenomeno, anche quello più paranormale. Ma temo sempre che, per quanto le risposte della scienza sappiano colmare le lacune che ognuno di noi ha, siamo disposti ad accettare delle verità in maniera dogmatica, affrancandoci quando possibile uno sforzo immaginativo e, di conseguenza, ogni stimolo creativo. Alejandro Jodorowsky, negli esercizi di immaginazione propedeutici alla Psicomagia, invita a fare esperienza della creazione, quindi anche della creazione come scultura e dice che: “con la scultura riusciamo a manipolare lo spazio creativamente. È importante, perché, se non si fa, ci sarà una dimensione che resterà non sviluppata”. Quindi, se c’è una preoccupazione che mi porto dentro è che in un mondo di sicurezze si perda lo stimolo a immaginare qualcosa di diverso, anche la realtà più improbabile. Al contrario, dovremmo riappropriarci di un pensiero divergente. Questo perché senza l’immaginazione che ci porta in mondi assurdi, manca anche quella necessità creativa che, in un modo o nell’altro, con le risorse che abbiamo a nostra disposizione, ci permette di soddisfare la necessità che abbiamo di perderci in mondi diversi dal nostro. Il pubblico deve fare esperienza della visione di un artista non per imparare a vedere ma per recuperare un’esperienza visiva che va compresa nel pieno delle sue potenzialità emozionali.
Questo contenuto è stato realizzato da Elena Solito per Forme Uniche.