Uno dei murales più famosi del messicano Diego Rivera (1886- 1957), Sogno di una domenica pomeriggio all’Alameda, si lega in modo indissolubile alle celebrazioni per il Día de los Muertos.
Realizzato tra il 1947-48 per la sala da pranzo principale del lussuoso Hotel del Prado a Città del Messico, il murale si trova oggi all’interno del Museo Mural Diego Rivera, dove fu spostato a seguito della demolizione dell’albergo, a causa di irreversibili danni strutturali provocati dal terremoto del 1985. Una composizione di dimensioni imponenti, ricca di elementi che celebrano il folclore messicano e la storia di un popolo fiero e orgoglioso delle proprie origini indie. Un’opera di matrice surrealista, dove realtà e fantasia si mescolano in modo armonico, così come lo stesso artista ha confermato nella sua autobiografia (Diego Rivera. La mia arte, la mia vita) quando scrive di aver provato a «mescolare l’esperienza del parco durante l’infanzia e alcuni episodi e personaggi legati alla storia del luogo».
Ecco dunque che, tra la folla, si scorgono qua e là illustri protagonisti della storia messicana come Francisco Ignacio Madero, il padre della rivoluzione del 1910 raffigurato a mezzo busto in alto a destra, mentre proclama trionfante la fine della trentennale dittatura di don Porfirio Díaz. A dominare su tutti è però l’immagine della Calavera Catrina, la donna-scheletro nata da un’idea dell’incisore José Guadalupe Posada (1851-1913) con l’esplicito intento di prendersi gioco della vanitas della borghesia europea, oltre che criticare la ridicola usanza delle ricche donne messicane di seguire i dettami della moda del vecchio continente, rinnegando di conseguenza gli usi e costumi della tradizione messicana.
Posada fece dei calaveras (teschi) il suo personale marchio di fabbrica e negli anni ne realizzò di moltissime varianti con l’obiettivo di denunciare, attraverso il mordace linguaggio della satira, l’inettitudine della classe politica messicana, accusata di corruzione e opportunismo per essere scesa a patti con gli investitori stranieri. In una realtà storica in cui la maggior parte della popolazione messicana versava in condizioni di grave indigenza con un altissimo livello di analfabetizzazione, Posada seppe intuire e sfruttare le potenzialità comunicative del linguaggio grafico, dando voce a coloro che, fino a quel momento, nessuno dei governanti si era mai preoccupato di ascoltare.
La tradizione dei calaveras non è però nata con Posada, ma era già radicata nella cultura figurativa delle antiche popolazioni precolombiane presso cui la morte non era concepita come la normale conclusione del ciclo vitale. Secondo le antiche credenze, alla morte seguiva una rinascita e quindi il sopraggiungere della morte non era da considerarsi come un qualcosa da temere, ma celebrare alla stregua di una festa. Questo spiega perché in Messico, ancora oggi, durante la festività del Día de los Muertos (28 ottobre – 2 novembre) è consuetudine che la gente si travesta da scheletro indossando maschere e abiti colorati che rievocano l’immagine della Calavera Catrina di Posada, diventata per i messicani la personificazione spiritosa della Morte celebrata con una festa gioiosa fatta di banchetti e offerte in onore dei defunti.
In Sogno di una domenica pomeriggio all’Alameda, la Calavera Catrina se ne sta immobile con aria austera, tenendo lo sguardo fisso sullo spettatore. I suoi grandi occhi truccati con un pesante ombretto viola sembrano rivelare con aria beffarda una sconvolgente verità: se all’apparenza, ricchi e poveri si distinguono per ciò che indossano, alla fine sono tutti semplici scheletri che camminano. Come a dire che, dopo la morte, ogni uomo si ridurrà a un mucchio di ossa insignificanti. Una chiave di lettura dunque non semplice, in cui s’intravede la sottile ironia derivata da Posada, comprensibile se si considera la storia messicana a cavallo tra XIX e XX secolo, di cui la rivoluzione del 1910 costituì l’esito conclusivo.
A parte il tradizionale cappello piumato di gusto eccentrico, nel murale di Rivera la Calavera Catrina è avvolta intorno al collo da un boa piumato che richiama la divinità azteca dalle sembianze di un serpente piumato, Quetzalcólatl, mentre la fibbia della sua cintura presenta il segno astronomico di Ollin, simbolo del movimento perpetuo del Sole. In questi due aspetti, come nel corollario di figure abbigliate secondo la moda messicana, è evidente la volontà di sottolineare con orgoglio le origini indie del popolo messicano. Alla sua destra lo scheletro tiene per mano un piccolo e goffo Diego Rivera con indosso un paio di buffi calzettoni gialli a strisce, mentre alla sua sinistra, l’anziano José Guadalupe Posada in abito scuro le offre elegantemente il braccio per accompagnarla nella passeggiata.
In un clima contrassegnato da una calda luce avvolgente, la Morte guida vivi e morti in una lenta processione tra i meandri del parco dell’Alameda. La scelta di ambientare la scena nel parco dell’Alemada non è casuale, ma è dettata dal fatto che Rivera, quand’era bambino, era solito trascorrervi molto tempo in compagnia della sua famiglia. Sono moltissimi i ricordi che l’artista dice di avere di quel luogo, rievocato qui con una vena di sottile malinconia, forse determinata dalla nostalgia di una giovinezza percepita ormai come un qualcosa di lontano e che può essere confermata dal fatto che l’artista si sia ritratto nelle vesti di un bambino di dieci anni. Sembra che in questo murale abbia prevalso più la dimensione emotiva dell’artista e ciò può trovare spiegazione nel fatto che Sogno di una domenica pomeriggio all’Alameda è un’opera della maturità, realizzata da un uomo non più giovane, che ha raggiunto una notorietà mondiale pagando però l’amaro prezzo successo.