La notizia del rinvio della mostra di Philip Guston – programmata per essere esposta al Museum of Fine Arts Boston, al Museum of Fine Arts Houston in Texas, al National Gallery of Art di Washington, D.C. e alla Tate Modern di Londra – è ormai nota, ma non per questo si è placato il rumore attorno a una faccenda che ancora lascia da discutere.
Philip Guston Now è il titolo della mostra che sarebbe dovuta essere e invece sarà, inaspettata ironia destinata ad accompagnarci fino al 2022, anno cui la retrospettiva dedicata all’artista prenderà finalmente vita. Poco male, dal momento che inizialmente il concilio dei quattro direttori dei musei coinvolti aveva addirittura posticipato l’evento al 2024. Un rinvio che aveva dell’eccezionale, al di là delle questioni che andavano a motivarlo. Difatti queste permangono tuttora, ma il loro effetto è stato ridotto a soli due anni di azione, per così dire, ritardante.
Si aggiunge ulteriore ironia e un pizzico di soddisfazione osservando come l’arte sia riuscita paradossalmente a guadagnarsi, con gli interessi, quell’attenzione di cui era stata inizialmente privata. Tutto il mondo dell’arte parla di Philip Guston, lo fa adesso, spesso difendendo i suoi dipinti. Spesso però paga, anche con il lavoro, le sue pur condivisibili prese di posizione. Per esempio Mark Godfrey, senior curator alla Tate Modern di Londra, è stato sospeso per aver criticato pubblicamente il museo per aver spostato la mostra che avrebbe dovuto iniziare il suo tour nel 2020.
Annullare o ritardare la mostra è probabilmente motivato dal desiderio di essere sensibili alle presunte reazioni di determinati spettatori e dalla paura di una protesta. Tuttavia, questo è estremamente paternalistico nei confronti degli spettatori, che si presume non siano in grado di apprezzare le sfumature e la politica delle opere di Guston.
Mark Godfrey su Instagram
Il curatore della mostra, da quanto trapela, sarà reintegrato al termine della sospensione. Quel che non sembra rientrare sia la polemica sorta ormai più di un mese fa, quando i quattro direttori hanno annunciato lo slittamento. Il nocciolo della questione sono le opere in cui Guston ha raffigurato alcuni membri del Ku Klux Klan. Nonostante la storia personale dell’artista e il contesto pittorico in cui sono inserite non lascino minimamente intendere alcuna simpatia di Guston verso queste figure, il direttivo dei musei ha percepito il rischio di ferire la sensibilità dei visitatori, di venire frantesi, di alimentare addirittura proteste. Perciò il posticipo sarebbe utile affinché «il potente messaggio di giustizia sociale e razziale che è al centro del lavoro di Philip Guston possa essere più chiaramente interpretato». Processo che a detta loro non è realizzabile di questi agitati tempi, dove la questione razziale è più che mai tesa.
Questa è apparsa una decisione incomprensibile e sbagliata sotto ogni punto di vista.
Prima di tutto è stato delegittimato il ruolo agitante e stimolante un pensiero critico dell’arte, relegata a mero oggetto di facile comprensione e innocua contemplazione. In secondo luogo rappresenta un atto di sfiducia nei confronti del pubblico, ritenuto non sufficiente preparato per afferrare il messaggio – a dire la verità piuttosto esplicito – che Philip Guston ha veicolato con le sue opere a tema KKK. E ancora, appunto, vi è la figurata offesa all’artista, il quale ora rischia addirittura di essere percepito come effettivamente reo di ideali razzisti. Infine, come emerso dallo sfogo del curatore Mark Godfrey, l’azione pare una dichiarazione di incompetenza nei confronti dei musei stessi: è possibile infatti che l’opera di un artista non possa essere contestualizzata e veicola correttamente? Per di più quando parliamo di istituzioni di livello mondiale come i musei in questione.
Del resto le intenzioni di Guston appaiono del tutto chiare. Il ciclo di opere del 1970, dove compaiono le incappucciate figure del Ku Klux Klan, ha un duplice intento: uno satirico, l’altro positivamente provocatorio. In primo luogo queste appaiono più ridicole e grottesche che minacciose. Chiusi in auto troppo piccole, costretti a fumari sigari attraverso il cappuccio, impegnati in attività quotidiane i membri della temuta setta evidenziano la loro goffa umanità. Risultano demistificati, ridotti alla miseria umana di cui tutti facciamo parte. Ma a questo proposito, ancora più importante, Guston ha voluto denunciare come anche noialtri risultiamo complici delle crudeltà contro cui non ci schieriamo.
La mostra avrebbe potuto urtare gli attivisti del Black Lifes Matter? Ma se sono proprio loro i primi a mostrarci come in queste tragiche dinamiche sociali non sia solo una questione di persecutori e perseguitati, ma che chiunque non si preoccupi di agire e protestare possa farsi silenzioso partecipe di un problema che giova dell’inerzia. Guston lo sapeva e ce l’ha mostrato fino a ricorrere a iperboli estreme: in un’opera ritrae addirittura se stesso incappucciato, manifestando rabbia e vergogna anche per sé. Un radicale auto-coinvolgimento che non era altro che una forte esortazione all’analisi individuale e, come conseguenza, all’azione pratica.
Il concetto non è certo del tutto immediato, ma neppure appare così criptico o impossibile da veicolare. Soprattutto quando sarebbe bastato compiere i primi passi nella mostra e soffermarsi sulla nota biografica dell’artista per capire che simpatizzante del KKK proprio non poteva essere. Ultimo dei sette figli di una coppia di ebrei ucraini in fuga dai pogrom di Odessa, nel 1919 la sua famiglia si era trasferita dal Canada in una Los Angeles tormentata dal Ku Klux Klan. Angosciato dai debiti economici e da altri problemi, il padre si suicida nel 1923. Nel 1935 Guston cambia il suo cognome (Goldstein), cancellando così le sue origini e provando a superare i traumi che l’accompagnano. Parte di questo sono confluiti proprio nelle sue opere, le quali riportano la sofferenza che l’artista ha direttamente vissuto.
Perché, allora, i quattro super musei si ostinano a rivendicare il valore della loro scelta?
La risposta, senza voler pensare male, non può che risiedere in un eccesso di premura – se vogliamo mitigato dall’anticipo sul posticipo, dal momento che Philip Guston Now è fissata ora per il 2022 e non più per il 2024. A voler pensare male, invece, dovremmo recuperare quel dogma della comunicazione – tra l’altro attribuito a Andy Warhol – che oggi gli esperti del marketing ci dicono non essere più valido: “anche la cattiva pubblicità è pur sempre pubblicità”. Nonostante le ultime teorie lo diano per sorpassato, non possiamo negare che poche mostre (e anche di questo potremmo volendo rattristarci) come Philip Guston Now siano riuscite ad ottenere una simile attenzione mediatica, a maggior ragione prima ancora dell’inaugurazione.
D’altra parte è altrettanto improbabile che i quattro direttori si siano lanciati in questa delicata e pericolosa operazione, la quale ha già portato conseguenze negative a fronte di vantaggi al momento del tutto ipotetici. Al momento, dunque, abbiamo perso tutti.