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Le opere dei musei lasciano l’inventario per finire in asta: il deaccessioning

Claude Monet, Les Îles à Port-Villez. Sold by Sotheby’s: 4,618,000 USD

Il 2020 e il Covid se qualcosa bloccano, qualcos’altro consentono. È il caso del deaccessioning: la tanto discussa vendita di opere a cui diversi musei stanno accorrendo per far fronte alla crisi finanziaria, in vista della loro sopravvivenza. Che sia un’opportunità o una minaccia ce ne si potrà accorge solo a lungo termine. Una cosa è certa, se nei musei americani l’inalienabilità è tendenziale e quindi è ammessa la possibilità di mettere sul mercato i beni meno importanti della collezione, in quelli italiani, perlopiù pubblici, le opere inventariate sono inalienabili.

Questa è una storia che inizia qualche mese fa in pieno lockdown, quando, come già avevamo anticipato, l’Association of Art Museum Directors (AAMD) dà il via libera ai musei americani a procedere con la vendita, il deaccessioning appunto, delle proprie opere, e non soltanto per acquistarne di nuove. A fronte della crisi globale, l’AAMD ha dovuto rivedere le restrizioni degli ultimi anni, concedendo alle istituzioni museali di vendere a partire da aprile 2020 e fino al 2022, a patto che una simile scelta sia dettata dalla direct care delle collezioni. Seguì a maggio la proposta di tokenizzare la Gioconda. Idea che provocò non poco scalpore.

È il 28 ottobre 2020 e il Brooklyn Museum di New York vende all’asta da Sotheby’s per 6,1 milioni di dollari il tavolo da pranzo in legno con piano di vetro (1950) di Carlo Mollino, nuovo record mondiale per l’architetto e prezzo più alto mai pagato per un’opera di design italiano. L’opera era un regalo che il governo italiano aveva rivolto al museo americano nel 1954, dopo che il tavolo era stato protagonista dell’esposizione del 1950 sul design dedicata al Made in Italy. Il museo newyorkese non si è limitato al capolavoro Carlo Mollino, il tavolo infatti è stato accompagnato nella medesima asta da un Monet (Les Îles à Port-Villez) venduto a 4,6 milioni di dollari, un Mirò (Couple d’amoureux dans la nuit) a 1,1 milioni, un Matisse (Le carrefour de Malabry) a 746 mila dollari e un Degas (Femme nue assise, s’essuyant les cheveux) a 685 mila dollari, oltre a un paio di Jean Dubuffet, ciascuno battuto a più di 3 milioni. Tuttavia, per il Brooklyn Museum l’asta del 28 ottobre è stata la seconda tappa: a metà dello stesso mese aveva venduto da Christie’s nove opere, delle dodici presentate, tra cui un dipinto Lucrezia di Lucas Cranach il Vecchio battuto a oltre 5 milioni di dollari.

Carlo Mollino, An Important and Unique Dining Table (1950). Sold by Sotheby’s: 6,181,350 USD

Alcuni professionisti del settore si riferiscono alla situazione come qualcosa che appartiene da tempo ai musei americani, poiché essi hanno una lunga tradizione di cessione di opere. Certo, in passato erano scelte legate a decisioni curatoriali e di revisione della collezione. Ad oggi la situazione è un’altra. I musei sono alle strette e rischiano la sopravvivenza. Tuttavia, per non lasciarci angosciare dalla vendita di opere di artisti così celebri, che lasciano un luogo sicuro come il museo, dobbiamo affidarci all’opportunità che l’occasione porta con sé. Infatti, secondo alcune voci di esperti, la presenza sul mercato di tali opere gioverebbe sia al mercato delle aste stesso che si trova alimentato da opere di altissimo valore, secondo Wanda Tarpino Rotelli di Sotheby’s; sia all’organizzazione dei depositi dei musei, dove una maggior flessibilità permetterebbe di muoversi verso vendite e acquisti più adatti alla collezione, secondo Cristiano de Lorenzo di Christie’s. Similmente a quest’ultimo, Karole Vail, direttrice della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, considera positiva l’ipotesi di vendere opere non essenziali o doppie per curare meglio la collezione e proseguire la propria missione.

È una scelta, quella del deaccessioning, che non riguarda solo i musei, ma anche le istituzioni musicali e le compagnie aeree. È il caso del Royal Opera House di Londra che ha venduto da Christie’s per quasi 13 milioni di dollari, il Ritratto di Sir David Webster (1971), ex amministratore della Royal Opera House, dell’artista inglese David Hockney (1937). Una vendita sofferta, ma necessaria per sostenere la crisi finanziaria e la loro comunità di artisti. Ugualmente ha fatto la British Airways che ha portato in asta diciassette dipinti della propria collezione, con pezzi di Bridget Riley, Damien Hirst e Marc Quinn. Il deaccessioning fa il giro del mondo e arriva anche a Seul: il Kansong Museum ha venduto per 2,5 milioni di dollari due bronzi di arte buddhista del VI e VII secolo, che hanno avuto un destino felice e sono finiti in un altro museo, il National Museum of Korea.

David Hockney, Portrait of Sir David Webster (1971). Sold by Christie’s: 12,8 USD

A questo punto bisogna forse sperare che il fenomeno del deaccessioning non divampi anche in Europa, dove una mossa è già stata avanzata dalla Royal Academy di Londra, che ha valutato l’ipotesi di vendere il Tondo Taddei di Michelangelo, stimato intorno ai 100 milioni di sterline, per scongiurare il licenziamento degli oltre centocinquanta dipendenti; ma dove, come nel caso dell’Italia, la legge proibisce la vendita per i musei statali, e per i musei privati la strada non è troppo semplice comunque.

Il problema del deaccessioning aveva interessato i musei già negli anni passati, provocando le stesse incertezze e malumori. Basti ricordare la vendita da Christie’s nel 2004 del Grande Metafisico di Giorgio De Chirico, battuto a più di 6,4 milioni di dollari, appartenuto alle collezioni del Museum of Modern Art di New York. Ad oggi, sembra essere una soluzione vincente per i musei per sopperire alle perdite finanziarie causate dal Covid, tuttavia resta alto il rischio che una simile operazione possa colpire le raccolte più suscettibili di essere monetizzate, con inevitabili ripercussioni anche sul mercato.

 

Una delle due statuette in bronzo di arte buddhista messe in asta dal Kansong Museum di Seul. Vendute a 2,5 milioni di dollari

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