Mank, il nuovo attesissimo film di David Fincher in esclusiva per Netflix. Luci e ombre di Herman J. Mankiewicz, il geniale sceneggiatore di Quarto potere
Quarto Potere (Citizen Kane, 1941) è un film che racconta molte storie, mitico sotto tutti i punti di vista: per la sua genesi, per la sua realizzazione e per l’impatto avuto sulla storia del cinema; una produzione travagliata, una campagna di boicottaggio, un Oscar vinto su nove nomination, quello per la migliore sceneggiatura. In chiave di indagine noir, la pellicola ricostruisce la (cripto)biografia di un magnate dell’editoria (ispirata alla figura di William Randolph Hearst, sposato in seconde nozze con la diva del cinema Marion Davies), potente, manipolatore, cinico e solo, frustrato da una vita di insuccessi politici.
Mank, il nuoto attesissimo film di David Fincher per Netflix (disponibile dal 4 dicembre), di storie ne racconta altrettante, spiando un particolare momento nel dietro le quinte del folgorante debutto cinematografico di Orson Welles (quello della sua scrittura), ponendosi così come una lente sulle origini di una pellicola leggendaria.
Partendo da una vecchia sceneggiatura del padre (Jack Fincher, mancato nel 2003), Fincher indaga la figura di Herman J. Mankiewicz, geniale (e sregolato) critico teatarele prima e sceneggiatore dalle fortune alterne poi, che – al contrario del fratello (Joseph L. Mankiewicz, regista di Eva contro Eva, Scandalo a Filadelfia, Improvvisamente l’estate scorsa) – non ha saputo (o voluto) cavalcare i meccanismi del successo hollywoodiano. Scrive i dialoghi per i muti di Josef von Sternberg e Frank Tuttle, produce i film del Fratelli Marx e in seguito firma copioni per, tra gli altri, George Cukor (Pranzo alle otto) e Robert Z. Leonard. È lui la penna dietro alla sceneggiatura di Quarto potere: sua la struttura, suo il punto di vista, sua l’analisi del personaggio di Hearst. Fincher, focaliddanzosi sulla biografia di Mank negli anni precedenti alla realizzazione del film, non riscostruisce tanto come è venuto alla luce il progetto di Wells, ma perché.
Quali erano i rapporti di Mankiewicz con gli Studios? Qelli con Hearts? E quelli con Marion Davis? Chi e come ha influenzato il suo approccio alla scrittura è il cuore del film. Sullo sfondo poi – ma non in secondo piano – c’è la storia: un Paese e un’industria (quella del cinema) che tentano di risollevarsi dalla devastante crisi del ’29, la nascita del giornalismo scandalistico, l’ombra della Seconda guerra mondiale che si avvicina, la Mecca del Cinema schiacciata tra la minaccia socialista e quella nazista.
Fincher si conferma un registra grandioso e dirige un film multiforme, stratificato: una riflessione sulla scrittura, sul cinema, sulla storia e sulla politica, sulla natura umana. Quella che il regista di The Social Network e Zodiac mette in scena con grande abilità è una storia di fantasmi, passati e futuri, approfittando dello spunto biografico per mettere in luce le contraddizioni di un sistema (quello narrativo, cinematografico) e lo scontro tra ideali e politica, tra ideali e mestiere, tra ideali e sovrastrutture; i due reali antagonisti sono il potere e la creatività.
La storia della stesura di Quarto potere e dei conflitti tra Mank e Orson Welles è solo uno spunto che gli permette di mettere a fuoco il complesso carattere dello scrittore, e attraverso una struttura che ricalca quella originale del film di Welles, scomposata in numerosi flashback alternati (indietro e avanti nel tempo), restituisce idee, suggestioni, inquietudini e impressioni: non si può racchiudere un’intera vita in due ore, è lo stesso Mank a dirlo mentre è al lavoro sul testo della sua sceneggiatura.
Oltre alla struttura, Mank omaggia il lavoro di Orson Welles anche nella regia, nello stile, in un’operazione mimentica in cui la fotografia, le lenti e le inquadrature anni ’40 riprendono vita: un’operazione raffinata e maniacale (per certi versi “di maniera”, caratterizzante ma – in fondo – non necessaria alla forza del racconto in sé) che, per quanto noioso va detto, avrebbe avuto tutt’altra luce in sala. La fascinazione di Fincher per il bianco e nero della Golden age hollywoodiana non è un mistero, omaggiato in maniera più frivola nella sua vidografia (da Vogue di Madonna a Suit & Tie di Justin Timberlake), diventa qui un omaggio totalizzante e appassionato.
Mank è un film ricchissimo, per livelli di lettura, per sfarzo produttivo e per il livello delle interpretazioni (“uno straordinario Gary Oldman”), ma – senza debordare – riesce miracolosamente a trovare un equilibro perfetto tra quello che racconta e quello che omette, tra quello che mostra e quello che cela. Così come Quarto potere parla di Hearts ma non parla di Hearts, così anche Mank parla di Mankiewicz ma non parla di Mankiewicz. Nella sua magniloquenza traspare una vena intima e profondamente personale, un omaggio di Fincher al lavoro del padre, al processo creativo, nonché (ovviamente) a sé stesso, al suo modo di vedere e concepire il cinema, senza troppi compromessi.