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Il cibo è arte? O meglio, il cibo può essere arte? Tra performance, rivelazioni e riproducibilità

Thiebaud Thiebaud
Thiebaud
Thiebaud

Il cibo è arte? O meglio, il cibo può essere arte? La domanda mi appassiona da sempre, no non è vero, non me n’è mai fregato granché, ho cercato di sfuggirla più che ho potuto, fino a che non me l’hanno posta direttamente, e allora sono stato costretto a pensarci.

Il fatto è che qui vorrei parlare, di tanto in tanto, anche di cibo. Perché la gastronomia è vita quotidiana e politica, innovazione tecnologica e cultura; più banalmente, perché è uno dei campi in cui sono un po’ meno ignorante. Sono ignorante assai in arte, l’ho detto subito, dal punto di vista tecnico; ma il discorso sull’arte incrocia il discorso sul mondo, in ogni suo punto: compresa la tavola.

Perciò, quando un collega mi ha chiesto – e non facendo due chiacchiere al bar di Facebook, ma addirittura per un’intervista – se per me l’alta cucina, il cosiddetto fine dining, fosse un’arte o meno, la prima cosa che mia venuta in mente è stata: ma che cavolo (pun intended) ne so, io. La seconda cosa che mi è venuta in mente, è stata un’espressione: “arte plastica effimera”. E gli ho scritto quanto segue.

Arte plastica effimera. Queste tre semplici parole furono un’agnizione, mi aprirono una visuale completamente diversa, quando le sentii la prima volta da Piercarlo Grimaldi, antropologo culturale ed ex rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche. Lui in verità parlava del pane, e di altre forme di elaborazione gastronomica tradizionale, come gli agnolotti del plin, dove la manualità artigianale sembra toccare vette estetiche elevatissime. E allora, se si può parlare di arte per i cibi popolari, a maggior ragione si dovrebbe per il fine dining, no?

piatto stellato

Ma che cos’è l’arte? Non facciamo la solita polemica, evitiamo di citare Duchamp, o Piero Manzoni, anche perché è l’altra estremità del tubo digerente, quella che c’interessa. L’arte in teoria sarebbe l’opposto del cibo: la Gioconda è una, unica, e d’altra parte possiamo guardarla in mille, anche contemporaneamente (è quello che succede, come sa chi è stato al Louvre) e lei mica si consuma. Un piatto di pasta e fagioli, si consuma eccome: se lo mangio io non lo mangi tu,la sua fruizione è limitata; e d’altra parte, se sono bravo, posso cucinarvi mille piatti di pasta e fagioli, tutti uguali, e ugualmente buoni. Unica e inconsumabile l’arte; replicabile e deperibile il cibo.

Ora però, sappiamo che l’arte è da tempo entrata nell’era della sua riproducibilità, e questo la avvicina alla gastronomia. Più direcente, l’arte è diventata performance: e questo cosa fa?La performatività rende un’opera che avviene in un determinato spazio e tempo, che necessita di un contatto fisico (pensiamo a Marina Abramovic e Ulay che stringono il passaggio ai visitatori), irripetibile, deperibile come un piatto di pasta. Dal lato opposto, il fine dining propone experience multi sensoriali, simili a performance: si va a Modena da Bottura in pellegrinaggio, alla ricerca di una rivelazione; proprio come una volta incamminarsi alla volta di Parigi era l’unico modo per vedere la Gioconda (“vale il viaggio” è la definizione che la Guida Michelin assegna al suo massimo riconoscimento, le 3 stelle).

De Heem
De Heem

Queste considerazioni sono entrate, a frammenti, in un articolo su Elle Decor (che dovete leggere anche perché gli altri intervistati dicono cose molto più intelligenti delle mie). Di recente però ci ho ripensato, perché leggendo Kitchen Confidential mi sono imbattuto in una brillante soluzione, quasi buttata lì, in puro stile Bourdain. Vediamo cosa diceva il geniale cuoco-scrittore newyorkese:

“Mi piace pensare che la cucina sia un’arte e un buon cuoco sia un artigiano, non un artista. Non c’è niente di sbagliato in tutto questo: le grandi cattedrali d’Europa sono state costruite dagli artigiani, anche se non sono state disegnate da loro. (…) Quando sento la parola ‘artista’ immagino qualcuno che pensa che non sia importante arrivare a lavoro in orario”.

La cucina è arte, ma il cuoco non è un artista: un bell’escamotage. Se chi cucina il piatto è solo un artigiano, come i carpentieri del Duomo, l’artista chi è? Nessuno, forse: un’arte senza artista, impersonale e oggettiva, divina. Oppure, più probabilmente, visto che un architetto, un progettista c’è, l’artista non è quello che cucina il piatto, ma quello che l’ha inventato: lo chef, il grande chef. Quella che sembrava una mossa furba, non fa altro che riproporre un discorso elitario, una discriminazione, una gerarchia, tanto necessaria in una cucina professionale quanto poco soddisfacente qui. Io penso invece che sia proprio il contrario: ognuno di noi, non solo un semplice cuoco di linea ma anche un panificatore casalingo o un magnifico dilettante del barbecue, possa in particolari condizioni di grazie produrre arte nel piatto.

L’importante è che abbia ben presente che si tratta di un particolare tipo di arte: arte plastica effimera. È quell’effimera il cuore di tutto, il destino di tutto: anche di quello che non ci sembra.

Lasagna
Lasagna
Thiebaud
Thiebaud

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